6 giugno 1981: la mutilazione delle vittime, il richiamo sessuale, il primo ‘mostro’ in carcere

Un nuovo delitto scuote la Toscana: altri due giovani uccisi nelle campagne fiorentine. Stavolta l’assassino si porta via l’intera parte pubica della ragazza che ha ucciso. Ma se non fosse solo un richiamo sessuale?

img_0917Da Borgo San Lorenzo percorriamo la Via Bolognese, passando da Fiesole e dal centro di Firenze, per raggiungere Scandicci. Il nostro viaggio nel tempo ci porta nei pressi del ex Club Anastasia nella frazione di Mosciano.

E’ sabato 6 giugno, l’anno il 1981. Sono passati 7 anni dall’uccisione di Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore in una campagna a circa 50 chilometri da qui e altri due ragazzi, Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi, dopo aver cenato con i genitori della giovane, decidono di regalarsi, in quella notte di novilunio, un attimo di intimità. La Fiat Ritmo rame di Giovanni imbocca via dell’Arrigo per poi girare a destra in una piccola stradina circondata da ulivi e viti. Carmela ha 21 anni, vive a Scandicci e lavora come pellettiera, Giovanni, 30 anni, è dipendente dell’Enel e vive a Pontassieve. Sono circa le nove del mattino di domenica 7 giugno quando Vittorio Sifone, passeggiando con il figlio di 10 anni per le stradine di Mosciano si accorge di un’ auto ferma con al posto di guida il corpo privo di vita di un ragazzo. Giovanni probabilmente è morto sul colpo, due dei tre proiettili hanno perforato la zona cranica ed uno l’emitorace sinistro. Le ferite da arma bianca che gli sono state inferte sono sicuramente post mortem.

 

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Ha la camicia sbottonata ed i pantaloni appena calati. Il finestrino anteriore sinistro è in frantumi, il sedile del passeggero reclinato, le porte tutte chiuse. A dodici metri dall’auto, su un piano più basso rispetto alla strada, il corpo senza vita di Carmela. La ragazza è stata raggiunta da 4 colpi di arma da fuoco e anche per lei la morte è istantanea visto il colpo inferto direttamente al cuore ed al polmone. E’ completamente vestita e tiene tra le labbra la catenina che portava al collo. Questa volta però la scena che si presenta agli investigatori ed al medico legale è agghiacciante: L’assassino le ha i tagliato i jeans dal cavallo fino alla vita e le ha in seguito asportato interamente la zona pubica.

Il professor Maurri riferirà: “…..Si badi bene il taglio famoso dell’indumento è avvenuto con precisione tale da non provocare la benché minima lesione della cute al di fuori della zona escissa, il che significa precisione, destrezza e sicurezza nel far si che il filo della lama interessasse in questa fase gli indumenti e solo essi. Ciò non può che significare un uso rapido efficiente e preciso del tagliente adoperato e quindi una manualità sicura e sperimentata. Colpiscono soprattutto, come si è già detto, l’assoluta nettezza dei margini per quasi tutta la circonferenza della lesione e l’uniformità del piano muscolo adiposo messo allo scoperto dall’asportazione dell’ampio frammento di cute e di muscolo…è evidente che deve essersi trattato di persona estremamente abile e precisa nell’uso di quel tagliente proprio per la perizia e la precisione con cui l’escissione è stata attuata, per l’ovvia necessità di agire in fretta…”.

 

La mutilazione però non è solamente un gesto che indica accanimento sul cadavere, ma il fatto che la parte asportata non si possa repertare significa che il mostro se l’è portata via con sé, la vuole conservare, gli serve come feticcio. L’assassino esce dalla scena del crimine con un ideale grembo materno e non per forza con un simbolo, solo ed esclusivamente, di richiamo sessuale.

 

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All’esterno dell’auto alcuni effetti personali della ragazza ed una borsa bianca chiusa. Sparsi all’interno ed intorno all’auto i bossoli marca Winchester con lettera H impressa sul fondello esplosi da una pistola Beretta Calibro 22 L.R. Due giorni dopo il delitto, Antonello Villoresi, giornalista de La Nazione pubblicò a fianco del pezzo di Mario Spezi, un articolo che ricordava e metteva in parallelo l’omicidio recente di Scandicci con quello di sette anni prima di Borgo San Lorenzo.

Gli inquirenti appresero dalla stampa e confermarono che i proiettili, l’arma ed il modus operandi erano uguali al delitto Pettini – Gentilcore. Quattro vittime di uno stesso assassino. Ancora nessun ricordo, invece, di Signa, non solo da parte del perito Zuntini, ma neppure da parte di Olinto dell’Amico che nel 1968 era già un ufficiale dei Carabinieri quando si recò a Castelletti dopo il duplice omicidio Locci – Lo Bianco e Capitano quando nel 1974 arrivò a Borgo San Lorenzo.

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Nel 1981 sono a capo delle indagini i procuratori Adolfo Izzo e Silvia della Monica, con la collaborazione del Capitano Dell’Amico. Gli inquirenti si indirizzano subito nel mondo dei guardoni a seguito di una segnalazione anonima pervenuta e che indicava l’avvistamento di un auto Ford Taunus, con tanto di targa, nella zona dove era stato compiuto il delitto. In realtà l’ambiente degli “Indiani” era già attenzionato dalle forze dell’ordine in quanto, in quel periodo, la loro attività era molto frequente e si sperava che qualcuno potesse fornire loro importanti informazioni. La Taverna del Diavolo, a Roveta, era il loro punto di partenza e di ritrovo; là si raccontavano le gesta notturne e si passava il tempo tra amici e conoscenti.

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Ed era un avventore della taverna anche Enzo Spalletti abitante al Turbone e proprietario della Ford avvistata ed il suo amico Fosco Fabbri, che la sera del delitto dichiarò di essersi appostato nei pressi della collina di Via dell’Arrigo insieme all’amico, ma di essersi allontanato intorno alla mezzanotte lasciando da solo lo Spalletti. Enzo Spalletti fu interrogato il 12 giugno. Dal confronto risultò chiaro che il guardone aveva assistito al duplice omicidio o comunque aveva notato i corpi dei due ragazzi ancor prima delle forze dell’ordine. Sua moglie disse di un rientro a casa del marito dopo le due del mattino, di aver ascoltato il giorno successivo il racconto in cui lui stesso affermava di “aver visto due morti uccisi sparati” e di come si sarebbe svolta la dinamica dell’omicidio; raccontò anche di non aver individuato l’assassino e che gli sarebbe piaciuto aver fatto qualcosa per fermarlo. Stessa cosa riferiranno gli amici della Taverna del Diavolo.

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Il fatto che Spalletti fosse a conoscenza dell’accaduto ancor prima che qualsiasi organo di informazione ne desse notizia, convinse gli inquirenti a trattenerlo in carcere per falsa testimonianza sperando in un “ritorno di memoria”. Circa un mese dopo l’arresto per Spalletti scattò l’accusa di omicidio e vilipendio di cadavere e Firenze aveva l’assassino di quattro giovani ragazzi, in galera. Il conducente delle ambulanze di Scandicci, sbattuto in prima pagina, sarà il primo mostro di questa lunga vicenda. Durante la permanenza in carcere di Spalletti sia alla moglie che al fratello giunsero strane telefonate anonime in cui si raccomandava il silenzio poiché ben presto il presunto mostro sarebbe stato scarcerato. Altro episodio strano accadde all’amico Fosco Fabbri molto tempo prima del delitto; sarebbe stato costretto sotto minaccia di un’arma a salire in auto e subire una predica sull’insano vizio di guardare le giovani coppie appartate in auto. Il Fabbri riferirà che l’uomo in questione, vestito con una divisa non comune alle sue conoscenze, dopo averlo terrorizzato e fortemente rimproverato, l’aveva lasciato andare. Spalletti rimarrà in carcere quattro mesi e per quattro mesi continuerà a ribadire di non aver visto nulla di significativo e anzi durante l’ennesimo interrogatorio dichiarerà: “Voi lo sapete che io non sono l’assassino, ma mi tenete in galera perchè state proteggendo qualcun altro”. In effetti il “chirurgo della morte” era ancora a piede libero e pronto a diventare di lì a poche settimane, grazie all’invenzione giornalistica di Mario Spezi, il Mostro di Firenze.

Per arrivare a questo dobbiamo nuovamente spostarci e seguire le indicazioni per Calenzano.

Andrea Ceccherini

p.s. nella primavera del 1981 Stefano Mele lascerà il carcere per aver scontato la pena e si trasferirà a Ronco all’Adige, in provincia di Verona. Salvatore Vinci ha da pochi mesi subito l’abbandono della moglie Rosina Massa e Francesco Vinci, dopo aver passato qualche mese in carcere per un presunto omicidio di un pastore sardo e di sua figlia avvenuto nel 1977 (vicenda che lo vedrà di nuovo in libertà perché totalmente estraneo ai fatti) conosce in questo periodo Milva Malatesta, la stessa donna che nell’agosto del 1993 verrà trovata morta carbonizzata insieme al figlio di tre anni all’interno della sua Fiat Panda in località Poneta di Barberino Val d’Elsa.

Con questo racconto ci avventureremo in campi che non sono di nostra competenza, ma cercheremo di far rivivere questa vicenda partendo proprio da chi l’ha già con serietà studiata e facendovi fare ciò che noi abbiamo già fatto: un viaggio nel tempo attraverso città, paesi, colline, strade di campagna, testimoni del più grande caso di cronaca nera italiana. Qualora notaste errori o imperfezioni o vi sentiste in qualsiasi modo in dovere di intervenire, noi siamo qua, pronti a darvi voce.

Fonti: Storia delle merende infami, Nino Filastò

Dolci Colline di Sangue, Mario Spezi, Douglas Preston

Mostro di Firenze – Al di là di ogni ragionevole dubbio, Paolo Cochi, Michele Bruno, Francesco Cappelletti

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