Le storie da manicomio – Il cappellaio matto

Questa settimana invece della consueta storia vorrei proporre ai lettori una digressione.
Preparando il materiale di corredo alla storia di Adolfo Bencini mi sono imbattuto in una foto che mi ha molto “intrigato”, quella di una specie di cappellaio matto. Mi è così piaciuta che l’ho inserita nella storia anche se, forse, non c’entrava molto. Per capire il perché di questa attrazione “fatale” ho cercato di conoscere di più, attraverso un po’ di ricerche, di quel ritratto e mi sono imbattuto in una serie di cose che non sapevo e che vorrei proporvi perché credo che abbiano un loro interesse.


Sono partito da Lewis Carroll (1832 – 1898), l’autore di “Adventures in Wonderland” ovvero “Alice nel paese delle meraviglie” che è un personaggio poliedrico: scrittore, fotografo, matematico e logico nonché sacerdote. La sua fama non è priva di ombre, si è infatti spesso trascinato dietro l’accusa di pedofilia.
Ma il suo testo ed il seguito (“Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”) sono capolavori assoluti, così ricchi di personaggi e di tante implicazioni che è difficile riuscire a coglierle tutte. I personaggi sono naturalmente di fantasia ma quasi tutti nascondono agganci segreti con protagonisti di quel tempo in un rincorrersi di ipotesi e di somiglianze.
Uno dei personaggi più simpatici è appunto quello che lui chiama semplicemente “il Cappellaio” o a volte “Hatta” dalla storpiatura della parola inglese hatter, cappellaio, anche se poi è per tutti diventato “il Cappellaio Matto”. La sua pazzia si esplica soprattutto nell’ammazzare, nell’ingannare il tempo, per cui celebra a tutte le ore l’ora del tè, oppure festeggia il suo non compleanno, inoltre colleziona orologi che sono spesso senza lancette e segnano solo il giorno e l’anno. È attraverso di lui che Carroll propone un indovinello a cui non dette mai risposta: “che differenza c’è tra un corvo ed uno scrittoio?”. Rappresenta una sorta di ribellione, quasi una liberazione, dalla rigida scansione del tempo che era presente nella società britannica di quel tempo. Del resto tutto il libro è in tal senso una continua trasgressione all’insegna di una vena di pazzia benefica e liberatoria.
L’iconografia ce lo rappresenta come un signore mingherlino con un cappello a tuba alto quasi quanto lui, a cui di solito è appeso un orologio e che porta una strana etichetta: 10/6 (che non è una taglia ma semplicemente il prezzo del cappello, 10 scellini e 6 pence) e che rimane uno dei simboli più conosciuti del libro (qualcuno disse che la sua faccia ricordava quella niente meno che di Disraeli). Inoltre sappiamo che il nome con cui lo conosciamo deriva in realtà da un’espressione molto in voga a quei tempi che recitava così: sei matto come un cappellaio, che lo stesso Lewis Carroll usa spesso nel libro quando dice che per vivere in un posto come il Paese delle Meraviglie, dove Alice si ritrova, bisogni essere matti come un cappellaio.


Ma insomma perché mai i fabbricanti di cappelli soffrivano spesso di disturbi psichici?
L’industria dei cappelli, in quegli anni fiorente in Inghilterra, utilizzava per il trattamento dei feltri una grande quantità di mercurio. Il mercurio era usato, tra il 1750 circa e il 1850, per la lavorazione del tessuto e del feltro. In particolare, le pelli necessarie per alcune parti dei cappelli, venivano immerse in una soluzione arancione contenente nitrato di mercurio. Questa sostanza era adoperata per dare al cappello un particolare tipo di durezza del tessuto ed impermeabilità. Poiché spesso i cappellai provavano sulla loro stessa testa i cappelli che fabbricavano senza che questi fossero ancora stati incerati e foderati di raso e seta (che dovevano proteggere sia il cappello che la testa dell’indossatore), il mercurio depositato nella stoffa entrava spesso a contatto coi capelli del cappellaio. Il mercurio era il principale responsabile della stravagante colorazione aranciata della chioma dei cappellai, che rasentava la fosforescenza, proprio a causa della nocività del mercurio. Oltre a questo strano colore, l’avvelenamento minimo ma prolungato da mercurio generava anche diversi scompensi psichici, causando un alternarsi continuo di umori, in una malattia indotta simile al bipolarismo: chiamata proprio Sindrome del Cappellaio o, in inglese, Mad-Hatter Disease.
Chi ha visto il film di Tim Burton “Alice in Wonderland” in cui John Depp interpreta quel personaggio potrà adesso apprezzare la ricostruzione filologicamente impeccabile del regista che lo rappresenta con i capelli arancioni, strane macchie intorno agli occhi e l’aria stralunata. Tutte cose che accadevano veramente ai poveri cappellai che spesso, per tutto ciò, erano sbattuti in manicomio fino alla fine dei loro giorni. Purtroppo per loro ancora nessuno conosceva la nocività dei metalli pesanti e le malattie professionali, quindi nessuno legò il loro mestiere con i loro disturbi. Quei poveretti erano matti e basta.
Venendo, per finire, alla foto da cui sono partito, mi pare che la rappresentazione sia aderente: grande cappello, sguardo un po’ perso dietro gli occhialetti, un fiocco spropositato che gli conferisce un’aria fiabesca. Le mie ricerche non mi hanno permesso di stabilire se quella è una foto proveniente veramente da un manicomio o se è solo un travestimento ben riuscito.
Con la speranza di non essere stato noioso vi do appuntamento alla prossima domenica con un’altra storia, questa volta più nostrale, del San Niccolò.

Andrea Friscelli