Quella chiacchierata Quota 100 da mandare in pensione tra mito e realtà

Viene utilizzato come tema politico, quando invece è un tema personale e anche sociale quello dell’anticipo pensionistico.

Così si tuona su Quota 100, non importa da parte di chi. Ma la motivazione non convince le persone che vogliono andare in pensione, in quanto affermare che “non serve” è alquanto anacronistico.

La realtà è, invece, che rinnovare questo tipo di misura impatta sui conti pubblici, sulla sostenibilità nel lungo periodo del capitolo di spesa dedicato alle pensioni nel bilancio statale. Da questo punto di vista basta leggere i dati all’interno del DEF che mettono in evidenza la cosiddetta “gobba pensionistica”, ovvero, il momento nel quale il numero delle prestazioni pubbliche da pagare supererà il numero degli iscritti attivi che versano i contributi. 

Cosa vuol dire in parole semplici?

Significa che, poiché in base al sistema pensionistico pubblico vigente, a ripartizione, coloro che versano i contributi stanno finanziando il pagamento di coloro che ricevono l’assegno pensionistico, tale equilibrio deve essere preservato, pena la sostenibilità finanziaria del sistema nel suo complesso.

L’arrivo della cara gobba era previsto nel 2033, prima dell’attuazione delle più recenti riforme strutturali. Se vogliamo tenere il conto, dal 2004 ad oggi ce ne sono state ben 7 di riforme strutturali, a conferma che la questione scotta da diverso tempo.

Così, l’età media al pensionamento dei 60 anni del 2004 lascia il posto, gradualmente, prima a 63 anni nel 2017, poi a 67 nel 2040, e infine a circa 68 nel 2050. Ci vorranno, cioè, altri trent’anni per tornare a un dato medio che sia più rappresentativo di equità, mentre nel mezzo, ci capita chi è andato in pensione baby, chi si è posizionato tra i 60 e i 65 anni, e chi ha superato i 71 anni!

Con riferimento alla chiacchierata Quota 100 la sua applicazione ha scadenza 31 dicembre 2021, quindi, se non sarà rinnovata non ci sarà più l’effetto di favorire una più rapida uscita dal mercato del lavoro e il conseguente aumento del numero di pensioni pagate, in rapporto al numero di occupati effettivi. Tutto ciò in un panorama di crescita reale del PIL molto contenuta (senza contare l’effetto pandemia) che non aiuta, visto che se non c’è crescita la spesa per pensioni in rapporto al PIL aumenta, allontanando l’auspicato 13,1% da raggiungere nel 2070. Eppure, questa prospettiva cambierebbe se aumentasse il numero degli occupati versanti. Si ritorna sempre al vero problema: avere il lavoro.

Allora, se dobbiamo dirla tutta, diciamo anche che, l’effetto di Quota 100 inizialmente fa salire la spesa pubblica, ma dopo, c’è di nuovo flessione, a causa della riduzione dell’importo dell’assegno per chi decide di prendere meno soldi, pur di vivere la qualità della vita che desidera. E diciamo pure che, quando tale spesa risale nelle proiezioni del DEF, la causa è la cosiddetta “transizione demografica”, che se anche aumenti i requisiti minimi di accesso al ritiro dall’attività lavorativa, non compensi il disequilibrio tra numero di giovani e numero di anziani, perché siamo un popolo vecchio: poche nascite rispetto ai decessi, quindi, solo nel lungo periodo con la transizione, si ripristinerà il saldo naturale.

Al 2070, invece, l’effetto dell’applicazione del sistema di calcolo contributivo per tutti avrà finalmente sortito l’impatto desiderato, insieme all’aumento dei requisiti minimi anagrafici dovuto alla speranza di vita, e, anche all’uscita della generazione baby boomers.

In conclusione, quando si parla di pensioni si ragiona in ottica di lunghissimo periodo; far sembrare che questa Quota 100, in vigore per 3 anni, abbia prodotto chissà quali danni non lo ritengo corretto.

Chiediamolo a coloro che hanno avuto la possibilità di anticipare il pensionamento dopo 38 anni di contributi regolarmente versati.

Aspettiamo, quindi, altre riforme pensionistiche più “moderne” ed eque.

Maria Luisa Visione