Perché il Tesoro non paga l’1% sui Bot

Voglio proporre alcuni spunti di riflessione partendo dalla richiesta di un cittadino che non riesce a comprendere, da risparmiatore, perché lo Stato non emetta Bot a sei mesi o a un anno al tasso dell’1%, dato che l’ultima emissione di BTP a 30 anni dello scorso 16 gennaio paga la cedola del 2,45% annua ed è stata collocata senza problemi. Il risparmiatore è certo che tutti acquisterebbero il Bot proposto e, quindi, dal suo punto di vista, lo Stato non ha ragione di non emetterlo. Prima di tutto perché raccoglierebbe denaro con certezza e poi, darebbe una soluzione ai tanti risparmiatori che si precipiterebbero a togliere i soldi dal conto corrente per investirli.  

Apparentemente il quesito appare semplice, ma in realtà, nasconde molto di più di quanto non sembri a prima vista. 

Per ogni anno il Dipartimento del Tesoro pubblica le “Linee Guida per la gestione del debito pubblico”, con l’obiettivo di comunicare al mercato tutte le informazioni relative alle emissioni dei successivi 12 mesi, comprensive del dettaglio della strategia di gestione che adotterà in merito ai rischi, che non camminano da soli, ma si collocano nell’ambito del contesto dei mercati finanziari nazionali e internazionali e della finanza pubblica di periodo. La prima riflessione, quindi, per capire come si formano i tassi, è mettersi dalla parte del debitore, che deve pagarli.

Nel 2019 appena concluso la vita media dello stock di titoli di Stato italiani è stata pari a 6,87 anni e il costo medio all’emissione dello 0,93%. Se anche di poco, rispetto all’anno precedente, la durata media si è allungata, mentre è diminuito il costo medio. Ciò significa che, da una parte è migliorata la solvibilità dell’emittente, infatti si è ridotto lo spread con i titoli tedeschi, e dall’altra si sono dilazionati i suoi tempi di restituzione, mitigando il rischio operativo e quello di liquidità. Nell’ultima emissione di Bot a un anno dello scorso 14 gennaio, è stata richiesta più quantità di quella offerta, chiudendo l’asta pubblica con 7 miliardi di euro e un rendimento medio ponderato di – 0,242%. 

Sul quantitativo collocato si tratta dello stesso ammontare di quello in scadenza, quindi, evidentemente, l’emissione è servita a rifinanziare i titoli da rimborsare. Sul rendimento il nostro risparmiatore dice: “Io non lo compro un Bot a tasso negativo”, ma qualcuno, evidentemente, lo fa. Accade perché il rendimento non è quello desiderato, ma è il tasso di interesse di mercato e non può essere incoerente con il quadro economico di bassa crescita e bassa inflazione.

Un esempio: nel 1993 la vita media dei titoli di Stato era di 3 anni e la durata finanziaria media del debito pubblico (che misura il rischio) di 1,6 anni; quindi, nel corso del tempo è cambiata significativamente la composizione del debito pubblico, con l’aumento in portafoglio dei titoli con scadenza più lunga. E ha ragione il risparmiatore, l’ultimo Btp scadenza 2050 lo hanno acquistato gestori di fondi, banche, fondi pensione e assicurazioni, per due terzi esteri; le imprese non finanziarie ne hanno in mano lo 0,1%. 

C’è poi il mercato secondario, ovvero tutti i giorni si devono poter scambiare senza problemi di liquidità i titoli presenti, sia che siano di breve durata, che di media o lunga scadenza.

In conclusione per rispondere al cittadino, la misura del tasso di interesse dipende da vari fattori e non è il Tesoro che li determina in autonomia, perché lui stesso dipende dal mercato, da chi è disposto ad acquistare sempre, con continuità, perché lo ritiene capace di rimborsare. Dalla sua parte il giochino deve essere sostenibile e, lui, essere in linea con gli altri Paesi europei, che addirittura hanno rendimenti più bassi perché sono ritenuti più solvibili.

In attesa quest’anno di coprire circa 202 miliardi di euro di emissioni a medio-lungo termine in scadenza e di altri 45 miliardi di fabbisogno del settore pubblico.

Maria Luisa Visione