E dopo la pandemia? Occorre proteggere oggi il lavoro di domani

Mano a mano che le proporzioni della pandemia rilevano i loro esiti, la situazione che stiamo vivendo e quella che si prospetta diventano assimilabili, in tutto e per tutto, a una vera guerra in corso e a uno scenario post-bellico in arrivo.  Di questi giorni tratterà la memoria della storia, ma le scelte di oggi, del qui e ora, saranno determinanti per tutti noi e per il nostro futuro. 

La mia è un’affermazione chiara, lo so, quasi scontata. Tutti l’hanno capito senza bisogno di essere economisti. Ma se la storia ci consegna una memoria da interrogare, ci dà anche l’occasione di prendere il meglio, ripetere ciò che ha funzionato.

Per questo non voglio soffermarmi sul debito pubblico. Draghi, senza alcuna esitazione, ha affermato che tra la distruzione permanente della capacità produttiva di un Paese e l’incremento del debito pubblico sceglie il secondo. Afferma anche che il bilancio dello Stato deve essere messo in campo per proteggere i cittadini e l’economia quando si verificano situazioni di shock simmetrico come quella attuale, shock di cui il settore privato non ha colpa; settore privato che in contabilità economica nazionale è rappresentato da famiglie, imprese e istituzioni finanziarie. 

Detto in parole povere, non è attraverso le tasse che si reperiscono fondi per finanziare la spesa dello Stato necessaria a fronteggiare gli effetti mastodontici di una pandemia. All’economia reale, al settore privato i soldi devono arrivare per affrontare questa situazione. E da dove arrivano, se le aziende non producono, non esportano e le famiglie non incassano i redditi? Possono arrivare solo dal settore pubblico, cioè dallo Stato.

Tradotto significa che ci vogliono centinaia di miliardi di euro che devono servire a garantire la liquidità di famiglie e aziende, nonché il funzionamento del settore pubblico, con una parola d’ordine “garantire l’occupazione”, non soltanto difenderla, non basta.

Ed è qui che la storia ci viene in soccorso e risponde a quanto i lettori mi chiedono, alla preoccupazione più profonda, al dopo.

L’analogia con un dopo significativo la possiamo rintracciare nel miracolo economico italiano degli anni cinquanta e sessanta; in quegli anni ci fu una crescita importante del reddito dovuta prevalentemente alla crescita industriale. Quindi, finita la guerra, il lavoro e l’occupazione resero possibile un dopo del quale ancora siamo orgogliosi.

Oggi è la salvaguardia del reddito con la certezza del lavoro che deve guidare le scelte politiche e creare i presupposti per una sua crescita, quando finirà il lock down.

Si legge in ogni dove che si sta decidendo il futuro dell’Europa adesso, visto che anche di fronte ai morti per accedere alle risorse europee, che dovrebbero assolvere alla funzione di tutela dell’interesse comune, Paesi come la Germania e l’Olanda affermano che ognuno deve essere responsabile del suo debito, e soprattutto chiedono garanzie inossidabili a chi ha bisogno di accedere. Ma se nemmeno di fronte alla minaccia della vita di noi cittadini, prima attaccata da un virus e poi dal sostentamento economico, come in tempo di guerra in cui il virus era il potere distruttivo delle bombe, non si trovano soluzioni che dimostrano unità senza fare differenze di forza, di che Unione Europea stiamo parlando?

In pratica è la stessa situazione di quando si chiede un finanziamento per avviare un’impresa, ma non te lo concedono perché non hai ancora l’impresa da mettere in garanzia e non hai prodotto utili.  Quindi, in ragione di questo, ti mettono l’ipoteca sull’impresa che farai, quando invece, dovrebbero soltanto allungare il tempo per restituire il finanziamento, in quanto quell’impresa con il suo reddito lo potrà ripagare, se viene messa in condizione di creare utile.

Quindi, il problema è il debito o la possibilità di produrre reddito? 

Non dimentichiamo, poi, che proprio alla Germania il debito, con l’accordo di Londra del 1953, fu ridotto del 50% e dilazionato in più di 30 anni. 

Maria Luisa Visione