Domani lavoreranno più macchine o più esseri umani?

Domani lavoreranno più macchine o più esseri umani?

Per svolgere le diverse mansioni lavorative domani serviranno più macchine e algoritmi o più esseri umani?

Il futuro digitale pigia sull’acceleratore come riportano i dati di “The future of Jobs 2018”, ricerca pubblicata sul World Economic Forum. Se guardiamo ai prossimi cinque anni, in un’ottica che passa più velocemente di quanto ci accorgiamo, possiamo scoprire luci e ombre su un mondo globale del quale, non ci dimentichiamo, facciamo parte. Si stima, infatti, che nel lavorare il numero di ore di attività richieste nell’ambito dell’elaborazione di informazioni e dati, entro il 2022 ci saranno, per la prima volta, più macchine e meno uomini.

La domanda chiave è se, nell’espansione dell’automazione semplice o avanzata, che investirà proprio funzioni quali il ragionamento e il processo decisionale, sapremo essere al passo. Perché, a fronte del tramonto di circa 75 milioni di posti di lavoro, ce ne potrebbero essere 133 milioni in più, nuovi.

Ma noi italiani, come abitiamo l’era digitale? Se è vero che la trasformazione in atto richiede un cambiamento strutturale nelle competenze, nello sviluppo delle abilità e nella riqualificazione dei ruoli, come stiamo affrontando il prossimo futuro?

Pensate che l’Italia si è collegata per la prima volta ad internet il 30 aprile del 1986, ma 20 anni dopo, nel 2006, il 63% di noi non lo aveva ancora utilizzato e, oggi, dopo altri 12 anni, il 71,7% delle famiglie accede in rete mentre, il 65,3% delle persone usa internet (fonte Istat). E’ un mondo di generazioni che si è evoluto, camminando anagraficamente, ma anche grazie alla cultura di base, dato che la percentuale di chi naviga regolarmente è alta in correlazione con la presenza di un titolo di studio, quale la laurea. Molti oggi sono i dispositivi disponibili per essere collegati, ma il più accessibile e frequente è lo smartphone, che non richiede competenze digitali per essere utilizzato.

Ora, per affrontare il mondo che sta arrivando, non basterà solo avere competenze digitali evolute; parliamo di progettazione e programmazione della tecnologia, di figure come analisti di big data, ingegneri di robotica, sviluppatori di software e di applicazioni. Ma, attenzione, anche di specialisti di e-commerce e social media, professionisti di marketing, di formazione e di sviluppo, professionisti rivolti alle persone e alla cultura. Per non parlare di risorse capaci di occuparsi di gestione dell’innovazione e di sviluppo organizzativo. Competenze nelle quali l’uomo può fare la differenza con le sue doti innate che risiedono nella capacità di sognare e creare con originalità, nel saper coniugare l’emozione all’intelligenza, nell’essere in grado di dosare flessibilità e spirito di servizio. Se, a primo acchito, l’orientamento verso la riduzione dei costi sembra far vincere le macchine, alla lunga è l’uomo che può raccogliere la sfida di saper intercettare sempre nuovi servizi e prodotti, mettendo in campo sperimentazione e cultura del talento. Questo significa investire, da parte delle aziende e dei governi, nel capitale umano.

E mentre per investire nelle aziende a livello mondo, si guarda alla realtà aumentata e virtuale e all’apprendimento automatico, ricordiamoci che i settori dell’istruzione, della salute, dell’ambiente, della cultura, del tempo libero sono miniere che possono rispondere alla domanda di bisogni intramontabili. Compreso quello di forze lavoro e talenti umani.

A mio parere, occorre, però, aumentare la spesa, ma quella dello Stato, accanto a quella dei privati.

Maria Luisa Visione