Stefano Lodovichi si racconta, tra Siena, il professor Dinoi e il “Libanese”

Intervista a Stefano Lodovichi, regista della serie di Rai 2 “Il cacciatore” che vede come protagonista Francesco Montanari, il “Libanese” di “Romanzo criminale”

Stefano Lodovichi

C’è un po’ di Siena nella serie italiana dell’anno. “Il cacciatore” (Rai 2) è infatti diretta da Stefano Lodovichi, un ex studente dell’Ateneo senese nato a Grosseto. Al centro delle puntate, c’è il pubblico ministero Saverio Barone e la lotta alla Mafia post-Riina. Il personaggio principale, ispirato alla figura di Alfonso Sabella, è interpretato da Francesco Montanari, il “Libanese” di “Romanzo criminale – La serie”.

“Il cacciatore”, i cui episodi 3 e 4 saranno trasmessi stasera a partire dalle 21.20, sta raccogliendo consensi tra il pubblico e la critica, sia per l’impronta registica che per il tono narrativo usato. Il regista grossetano  ha diretto le prime sei puntate della serie, mentre le altre portano la firma di Davide Marengo.

Lodovichi, le prime due puntate de “Il cacciatore” sono piaciute. Siete soddisfatti?
«Sì, molto. La nostra è una serie molto particolare, non è il classico prodotto Rai. Non abbiamo un cast di particolare richiamo televisivo. Sicuramente, Francesco Montanari si è portato dietro, grazie all’esperienza di “Romanzo criminale”, un pubblico adatto a una serie di genere crime/action. Abbiamo fatto un lavoro di casting per cercare i migliori attori che potessero esserci in giro. Non abbiamo scelto i volti pensando al pubblico, abbiamo optato per la qualità. Il passaparola sulla serie che ho sentito mi sembra generalmente positivo».

Quando è nato il progetto “Il cacciatore”?
«I due head writers (sceneggiatori principali, ndr) Marcello Izzo e Silvia Ebreul hanno iniziato a lavorare sul libro “Cacciatore di mafiosi” di Alfonso Sabella circa otto o nove anni fa. L’adattamento è stato proposto a un paio di case di produzione e poi, all’incirca un anno e mezzo fa, i diritti sono stati presi dalla Cross Production di Rosario Rinaldo, che ha deciso di farne una serie. Nel momento in cui il tutto si è messo in moto realmente, sono stato coinvolto, sia nel processo di scrittura – sono lo sceneggiatore dell’episodio 4 e di metà del 5 insieme a Fabio Paladini – che come regista dei primi sei episodi. Gli altri sono stati diretti da Davide Marengo».

Com’è andata la coabitazione con un altro regista?
«Non si è trattata di una co-regia, cioè due registi che dirigono assieme un episodio o un film. Io ho fatto i primi sei episodi e dopo Davide ha realizzato gli altri. Ci siamo confrontati sul linguaggio da usare, sul cast e cose del genere. Ognuno ha portato il proprio mondo, per questo dall’episodio 7 in poi il tipo di narrazione si modifica leggermente, senza però cambiare del tutto».

Ad aprile “Il cacciatore” parteciperà a “Canneseries”, il concorso ufficiale del Festival di Cannes dedicato alle serie tv. Quali sono le vostre aspettative?
«Sono felicissimo anche solo di andare là. Siamo l’unica serie italiana che è stata selezionata. Fra l’altro, sono stati scelti i primi due episodi, che sono diretti da me».

L’estetica usata ne “Il cacciatore” è molto particolare, la definirei pop. Come mai l’avete scelta?
«Volevamo creare un mondo tutto nostro. Al contrario di altri film o serie sulla Mafia dove c’è una certa retorica visti i personaggi coinvolti, spesso vittime di Cosa Nostra, noi ci siamo allontanati da quel modo di fare. La scelta del pop, comunque concordata con la produzione e con Davide Marengo, è per me anche un’inclinazione personale, vicina ai miei punti di riferimento Guy Ritchie, Martin Scorsese e Paolo Sorrentino. Il loro uso della macchina e dei ralenti, ad esempio, cerca di coinvolgere lo spettatore e, in qualche modo, di galvanizzarlo.

Il nostro obiettivo è quello di divertire, senza però dimenticare che al centro della narrazione c’è una storia italiana recente che presenta anche molti punti oscuri. Non vogliamo permettere l’immedesimazione nei criminali, al contrario di serie come “Romanzo criminale” o “Gomorra”. Noi cerchiamo, pur mostrando l’intimità dei mafiosi, di far emergere la loro crudeltà umana. In casa possono essere anche amorevoli, ma quando vanno al lavoro diventano delle bestie, tanto da ammazzare perfino i bambini. Il nostro tentativo, quindi, è quello di coniugare il pop con la critica sociale».

Ha studiato all’Università di Siena. Cosa si ricorda del periodo vissuto nella nostra città?
«A Siena sono cresciuto ed è una città che amo profondamente. Mi sono laureato in Metodologie della critica cinematografica con il professor Marco Dinoi, la persona che più mi ha cambiato. Mi ha incoraggiato a fare cortometraggi, mi ha spronato a fare sempre di più e a vedere le cose da più punti di vista. Devo tantissimo a Marco. E pensare che è morto giovanissimo, a soli 35 anni. Grazie al suo aiuto, riuscii a far passare come esame un cortometraggio realizzato all’interno della Facoltà di Lettere.

Siena è una città che consiglio a uno studente, perché ti permette, pur restando in un contesto piccolo, di conoscere persone provenienti da tutta Italia. Ti consente di crescere umanamente e culturalmente. Per quanto riguarda il mio lavoro, lo studio dell’arte che ho fatto a Siena mi è tornato utilissimo. Spesso fornisco ai miei collaboratori “input” pittorici su luci, colori o cose del genere. C’è un progetto a cui sto lavorando attualmente, ambientato nelle stanze di un appartamento, per cui ho studiato i pittori danesi, tedeschi e nordeuropei in generale. Mi interessa il loro modo di trattare la luce e di come rimbalza sulle pareti».

Sarà il suo prossimo lavoro?
«Questo progetto si chiama “La stanza” e vede protagonisti tre attori bravissimi: Camilla Filippi, Giulio Beranek e Mario Sgueglia. Questo film, purtroppo, al momento è fermo, ma sono sicuro che prima o poi riuscirò a finirlo».

Emilio Mariotti