Pasqua o Pasque… le vicende complesse della più importante festa del Cristianesimo

A prima vista sembrerebbe inspiegabile: il Cristianesimo, che ha saputo inventarsi la data della nascita di Cristo, ponendola convenzionalmente in un (improbabile) 25 dicembre, non è stato invece in grado di dare una collocazione calendariale precisa ai tre giorni della passione e resurrezione. E pensare che, apparentemente, sarebbe forse possibile farlo. Apparentemente, appunto.


La storia degli ultimi giorni di Cristo-uomo si svolgono, questo lo sappiamo dai Vangeli, nel corso della Pasqua. Quella ebraica, ovviamente, che viene celebrata in occasione del plenilunio, intorno al giorno 14 del mese di Nisan che, nel calendario ebraico, è il primo mese del nuovo anno e che cade a primavera. Il fatto è che il calendario ebraico non è solare ma lunare e l’anno oscilla fra 353 e 355 giorni e si è pertanto costretti, ogni tre anni, a inserire un mese aggiuntivo per riallinearsi al ciclo del Sole.

 

Già, di per sé, le Pasque ebraiche, in origine, non sono una, ma due e solo dal VII secolo avanti Cristo, con la compilazione del Deuteronomio, si unificano in una festività unica. Una è la festa detta “Hag ha posah”, ovvero “festa del passaggio” e commemora l’uscita degli ebrei dall’Egitto; l’altra è “Hag ha masot” ovvero “festa dei pani non lievitati” (gli azzimi). Si è ipotizzato (vedi Alain de Benoist: “Tradizioni d’Europa”) che la prima sia una celebrazione più legata alla parte nomadica della cultura ebraica, e la seconda invece più caratteristica di quella sedentaria incentrata sull’agricoltura. Forse è anche da questa differente origine che si generano i due tipi di offerte che si fanno in queste occasioni e che si mantengono nella fase, diciamo così, “unificata”: il primo covone d’orzo mietuto e un agnello.
La Pasqua cristiana si incardina, così, di fatto, a quella ebraica e richiede anch’essa di essere celebrata intorno al primo plenilunio di Primavera che, logicamente, dato che il ciclo lunare è di 28 giorni, non cade sempre nello stesso giorno.
C’è un’ulteriore complicazione.
La Pasqua cristiana deve cadere di domenica, ma tre dei quattro vangeli canonici dicono che Cristo celebra la Pasqua con i suoi apostoli, prima che cominci la storia della sua cattura, processo, flagellazione, condanna e morte. E la morte avviene il venerdì. Dunque la Pasqua (si parla ancora di quella ebraica, ovviamente durante la quale viene consumata l’ultima cena) è stata necessariamente, in quell’anno, di mercoledì. Poi la domenica avviene la resurrezione (perché non il sabato, subito dopo la morte, vi chiederete. La risposta è semplice: al di là di tutto quello che era stato scritto nei sacri testi, profetizzato e previsto, resta il fatto che Cristo e il suo seguito di discepoli erano ebrei osservanti, e nessun ebreo osservante farebbe alcuna cosa – nemmeno risorgere, se vogliamo metterla così – nel giorno di shabbat, sacro al Signore e nel quale ci si deve astenere da qualsiasi tipo di attività).
Però il quarto vangelo, per la precisione quello di Giovanni, dice che Pasqua cadeva in quell’anno di domenica (giorno della resurrezione) e che dunque la cena e l’istituzione dell’Eucarestia non sono avvenute in occasione di un pasto pasquale, ma prima. Dunque, il plenilunio di Nisan può cadere in qualsiasi giorno della settimana: la Pasqua cristiana, secondo Giovanni, no. Deve cadere di domenica.
E questo lacera la comunità cristiana delle origini.


La Pasqua è, per secoli, l’unica festa identitaria del Cristianesimo. Il Natale, la data della nascita sotto forma umana del Cristo, all’inizio interessa poco o per niente. E’ il momento della Ressurrezione, quando si sancisce l’atto finale del percorso che ha portato l’uomo di Nazareth a morire e rinascere per la salvazione dell’umanità, che catalizza tutta l’attenzione dei cristiani.
E a lungo una parte dei seguaci della nuova religione (i quartodecimani, come venivano chiamati) continuò ad avere come riferimento il 14 di Nisan e a celebrare la resurrezione alla fine della seconda sera dopo quella data. Alcuni di essi la “tradussero” nel calendario corrente e la fissarono inamovibilmente al 25 marzo. Papa Vittore I (pontefice dal 189 al 199) non ci pensò due volte e scomunicò i quartodecimani, ma il suo gesto non servì a sopire le controversie. Ci volle il Concilio di Nicea (quello del 325; il Concilio del “Credo”, per capirsi) per arrivare a decidere che la Pasqua cristiana si sarebbe celebrata in altra data da quella giudaica (si era maturato, nel frattempo, il definitivo distacco del Cristianesimo dalla religione-madre e lo sganciamento della celebrazione della resurrezione del Cristo dalla festività ebraica era un ulteriore modo per sottolinearlo) e che sarebbe stata una festa mobile perché collegata al verificarsi del primo plenilunio primaverile, cioè, pertanto necessariamente, in una domenica compresa fra il 21 marzo e il 25 aprile.


Questo per i cattolici: i seguaci del cristianesimo bizantino, greco-ordodosso, la celebrano in un altro giorno perché il calendario di quella Chiesa non è il nostro calendario gregoriano, ma quello giuliano.
Il rito cristiano della resurrezione trova un terreno fertile per essere compreso e accettato. Le culture greco-asiatiche presentano, infatti, casi assonanti che rendono, come dire?, “familiare” l’immagine di un dio che muore e risorge. Tutti questi casi si collocano, si badi bene, in primavera, stagione che di per sé rappresenta la resurrezione della natura dopo la morte invernale. La più chiara di queste assonanze non è, probabilmente, quella frigio- anatolica di Attys (come invece sostiene con una discutibile perentorietà il de Benoist) con le sue similitudini molto sfilacciate e confuse, quanto, piuttosto, quella greca di Adone (che però, per la verità, varia da luogo a luogo, da località a località, all’interno di un periodo che arriva fino all’inizio dell’estate) la quale parla di un giovinetto bellissimo conteso fra Persefone, dea degli inferi, e Afrodite dea dell’amore. Zeus, per mettere fine alla disputa, decreta una spartizione in base alla quale Adone dovrà vivere metà dell’anno (quello, non casualmente, autunnale-invernale) presso la signora del “sottoterra” e l’altra metà con la dea dell’amore e della vitalità. Un giorno, Adone muore ucciso da una fiera, e il suo sepolcro viene adornato di fiori (i cosiddetti “giardini di Adone: si noti che è lo stesso identico rito dei vasi di fiori deposti sul sepolcro del Cristo morto la sera del Venerdì Santo) ma, racconta una versione fenicia della leggenda, dopo alcuni giorni di compianto, risorge e ascende al cielo.
La sua storia riscritta dai fenici si contamina, peraltro, con un altro culto, quello del dio babilonese-siriano Tammuz che, dice la sua leggenda, muore ed è a lungo pianto finché, a primavera, ritualmente risorge e si ricongiunge a Ishtar, dea le cui caratteristiche sono abbastanza simili a quelle di Afrodite.
E se la Passione di Cristo fosse stata la rappresentazione di un Purim? Gli ebrei celebrano la festa di Purim ancora una volta il giorno 14 (si conclude il 15), ma, in questo caso, del mese di Adar, che è l’ultimo dell’anno e, pertanto, immediatamente precedente a quello di Nisan in cui si celebra la Pesach. Si tratta della rituale rievocazione (no, visto come si conclude, è una riattualizzazione estrema) di un episodio narrato nel libro di Ester, nel Vecchio Testamento. In breve: alla corte di re Assuero di Persia (Serse I ?) l’invidioso Aman cerca di screditare il probo ebreo Mardocheo, funzionario regale che aveva salvato il sovrano da un complotto, e chiede al re di ammazzare lui e tutto il suo popolo. Ester, cugina di Mardocheo e favorita di Assuero, impone il digiuno penitenziale agli ebrei e convince il re che sta per compiere un’infamia. Pieno di sdegno, il signore fa uccidere (impiccare? crocifiggere? Michelangelo nella Cappella Sistina non ha dubbi: crocifisso) il perfido Aman. In realtà, Purim è la trasposizione giudaica delle feste Sacee babilonesi, nelle quali un criminale, dopo aver goduto per un mese di ogni privilegio, quasi che fosse un re o addirittura un dio (attenzione a questo particolare), veniva impiccato o crocifisso. In questo caso un reo (capro espiatorio) pagava per le colpe di tutti e mondava la collettività di ogni peccato.
Fin qui, niente che ci interessi. Ma ci interessa constatare che l’esecuzione di Aman e del capro espiatorio delle Sacee era preceduta da un rituale di irrisione, durante il quale il condannato era sottoposto a ogni sorta di sevizie, addobbato con corone “regali” buffonesche, vestito di un mantello scarlatto e dotato di una canna spezzata quale grottesco scettro. Oltretutto, sul suo patibolo veniva inchiodato un cartello che diceva che quello era il “re” per burla, sacrificato come imponeva il rito.


A sottolineare l’impressionante somiglianza con il rituale di tormenti e beffe cui è sottoposto il Cristo fu James George Frazer (1854-1941) in una digressione dell’anno 1900 contenuta nella seconda edizione del suo capolavoro “Il ramo d’oro” (considerato ancora oggi un testo base, per quanto ormai ampiamente superato, dell’antropologia). La Passione di Cristo, si chiedeva, era un Purim celebrato fuori data? O è solo il rituale che viene ripreso? E, nel caso, come è possibile che ciò sia stato fatto da soldati romani che non sapevano un’acca di Aman, di Mardocheo, delle Sacee babilonesi e di tutta la obbligatoriamente drammatica conclusione della performance? Oppure ha ragione Luca quando dice che a flagellare e sbeffeggiare Cristo non furono i soldati romani di Pilato, ma quelli ebrei di Erode?
Alla luce di tutto questo, prenderebbe senso l’incomprensibile atteggiamento di Pilato: trova Cristo innocente, ma non lo libera (e avrebbe potuto farlo! Era plenipotenziario romano e aveva diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma) perché lui può solo essere il notaio della proceduta rituale del Purim in cui un prigioniero deve essere liberato ed uno deve essere ucciso dopo il già ricordato rituale. Pilato cerca di riservare la salvezza a Gesù e di mandare al supplizio Barabba, ma non può opporsi alla decisione del popolo che, sovrano, è lui a decidere il ruolo che giocherà ciascuno dei due attori. Così Pilato deve cedere, protestando che, per lui, il nazzareno non è colpevole di niente e che sarebbe lui a meritare di essere liberato.
Solo ipotesi, quelle di Frazer, e lui stesso le presentava onestamente come tali. Ma ipotesi che aprono inquietanti domande su tutta la rappresentazione della passione del Cristo.
Ce n’è abbastanza, insomma, per capire che il racconto cristiano, sia pure con tutta la sua carica di originalità, si nutre di un contesto religioso-mitologico ben rigoglioso e prodigo di simbologie e di metafore.
Come se non bastasse, la tradizione ha poi corollato la Pasqua di aspetti che rinviano al contesto culturale agrario, più che a quello religioso. Intorno a questa festa si sviluppa, infatti, un apparato folklorico che in più di un caso prescinde da ogni contenuto cristologico per accedere invece a quello tradizionale del rinnovamento dell’anno.
Ne è il più clamoroso esempio la tradizione dell’uovo pasquale, che con la Pasqua cristiana non c’entra assolutamente niente, ma che ha finito per diventare una delle sue icone ineliminabili.

L’uovo è il simbolo del “cominciamento” e questo ci spiega perché viene considerato principio di tutto in una serie di culture e religioni, da quella egiziana a quella greca e a quella celtica, e perché ci si scambiano le uova decorate in occasioni particolari come buon augurio. Il Cristianesimo identificò con l’uovo e con il suo passaggio da uno stato di natura generante ad uno vivente il momento della resurrezione e del passaggio-ritorno da Cristo-uomo a Cristo-dio (lo fa Sant’Agostino, per esempio) e cristianizzò l’uso di decorarlo di rosso (colore allusivo al sangue che dà vita) come ricordo del sangue della Passione.

La tradizione delle uova augurali scambiate come dono si intreccia, a sua volta, con quella che ha connotato più di una cultura contadina, con le uova decorate e disseminate nei campi per propiziare la fertilità e il ritorno del raccolto. Da qui, a sua volta, si diparte la tradizione folklorica parallela della lepre pasquale, o lepre marzolina, o coniglio pasquale, che dissemina le uova decorate nei campi e nei boschi, e che devono essere trovate dai bambini la mattina di Pasqua.


Le uova con la sorpresa dentro, invece, non sono antecedenti all’epoca di Luigi XVI, il quale, se invece di occuparsi della sorpresa nelle uova si fosse preoccupato della sorpresa che gli fecero i rivoluzionari, forse avrebbe salvato la testa.
Beninteso: erano uova-uova: bollite, svuotate, decorate (Luigi XIV ne aveva fatto addirittura placcare in oro uno enorme che gli era stato donato) e non uova di cioccolato o altro. Perché le golose uova che oggi sgranocchiate senza sensi di colpa per la ciccia e brufoli che vi regalano è quasi sicuro che non sono esistite prima dell’Ottocento.

Duccio Balestracci