Montaperti: come nasce, si alimenta e sopravvive un mito

E’ inutile, non ce ne libereremo mai. Il fantasma di Montaperti continuerà a convivere con il nostro immaginario per chissà quanti altri secoli, esattamente come ha fatto da parecchi secoli a questa parte. Anzi, riformuliamo meglio: del fantasma di Montaperti non vorremo, noi stessi, liberarci mai perché questa memoria fa parte integrante ormai della nostra eredità mentale e ogni volta che evochiamo la giornata del 4 settembre 1260 non “riesumiamo” un cadavere, ma facciamo ricorso a qualche cosa che è elemento “vivo” del nostro essere senesi. E il bello è che questo mito (diversamente da quanto frequentemente si sente dire) non nasce per niente come sterile rivalsa antifiorentina maturata dopo la fine dell’indipendenza senese. Nemmeno per idea. Nasce ben prima. Nasce già nel Trecento, e non in funzione anti-qualcuno, ma, al contrario, per esaltare Siena.

 


Quando le cronache di quel secolo raccontano la battaglia, non è tanto il sentimento antifiorentino ad essere percepito. C’è anche questo, diamine, però in secondo piano: Siena, quando questa gente scrive, è già guelfa e allineata politicamente con Firenze. E’ un matrimonio di convenienza e non d’amore; è un’alleanza che spesso si incrinerà per reciproche fellonie e divergenti interessi politici, ma quando scrivono l’Anonimo o il Montauri (decenni e decenni dopo l’episodio) Siena ha transitato nel campo guelfo che in quel 1260 aveva combattuto, e più di tanto, per quanto il coniuge non lo si ami, non gli si può sputare in faccia.
In realtà, il sentimento che emerge prepotente dalle stesse cronache che raccontano l’episodio è quello di fierezza di una comunità che ha dato dimostrazione della sua potenza militare. Ci sono gli 800 cavalieri di Manfredi, certo, e, secondo alcuni storici della guerra medievale, possono aver fatto la differenza (forse: ce n’erano di altrettanti e altrettanto ben addestrati nell’altro campo. Comunque, prendiamo per buona la considerazione), come che sia, resta il fatto che l’esercito senese – comunque la si metta, inferiore di numero – tenne vittoriosamente testa a quello nemico.
Si traccia, nelle pagine dell’Anonimo, ma soprattutto in quelle dello scrittore conosciuto col nome di Paolo di Tommaso Montauri (le ha scritte davvero lui? Chi era? Quando è vissuto? Parafrasando un noto telecronista a conclusione di un noto Palio: non sappiamo, non sappiamo) la narrazione di quel che avvenne a Siena e intorno a Siena fra la fine d’agosto e i primi giorni di settembre, in una sorta di romanzo pieno di particolari, di colpi di scena, di allocuzioni e commossi accenti ripresi (dice l’autore) da una cronaca coeva ai fatti, ma scomparsa. Verosimilmente, tutti inventati di sana pianta. Tutti, comunque, improntati da un orgoglio civico che va ben al di là dell’antifiorentinismo (sì, anche questo; ma in seconda battuta).
Lo stesso orgoglio civico che anima, nel Quattrocento, per l’esattezza nel 1442 o secondo altri nel 1443, le pagine (addobbate di animate, deliziose miniature) di Niccolò di Giovanni di Francesco di Ventura. A lui, in quel torno di Quattrocento, non gliene poteva importare di meno di polemizzare con Firenze rievocando la sconfitta subita dai guelfi sull’Arbia. A lui interessava – in un momento in cui Siena rivendicava il suo protagonismo sulla scena politica e diplomatica dell’Italia rinascimentale – ricordare che la sua città aveva avuto un passato militare di grande rilievo e che, perciò, era in grado di dimostrare che possedeva, in questo campo, un altrettanto significativo presente. Sono gli stessi anni, quelli della cronaca di Montaperti scritta e disegnata dal Ventura, in cui Domenico di Bartolo racconta l’altra faccia della grandezza di Siena, questa volta nel campo dell’assistenza e del welfare (come si direbbe oggi), sulle pareti del Pellegrinaio del Santa Maria della Scala. E’ orgoglio civico a tutto campo quello che si respira a Siena nel Quattrocento; che si nutre dell’elaborazione del mito fondativo della città ad opera dei figli di Remo che rinviano automaticamente ad una derivazione della città da Roma, e che si alimenta – appunto – anche del ricordo della giornata sull’Arbia.
Ed è ancora questo lo spirito che anima la prima opera a stampa (per quanto se ne sa) dedicata a Montaperti: quella di Lancillotto Politi (Siena 1484-Napoli 1553: giurista, teologo, predicatore e arcivescovo. Mica uno qualsiasi) pubblicata nel 1502. Nel suo poema l’antifiorentinismo, se c’è, è parecchio dietro le quinte: il Politi dedica il suo lavoro a Pandolfo Petrucci che, finalmente, ha reso stabili le istituzioni cittadine riportando Siena alla grandezza politica che aveva a metà ‘200, come aveva avuto modo di dimostrare a Montaperti.
E’ vero, certo, che popolarmente l’astio antifiorentino aveva continuato a covare sotto traccia: i contadini della Berardenga che, proprio nel ‘400 (quando erano passati più o meno due secoli dall’episodio) chiedevano al Comune di Siena di rifortificare il sito di Montaperti, adducevano come pezza di appoggio alla loro richiesta la necessità di difendersi dalle continue incursioni delle quali erano vittime e che partivano dal territorio fiorentino perché, argomentavano i fieri villici, a quelli dell’oltre frontiera ancora gli era rimasto di traverso nel gozzo lo smacco subìto nel 1260. La solidità della motivazione è dubitabile, ma è sintomatico che anche ai livelli più bassi si percepisse la memoria di Montaperti come un qualche cosa di ancora vivo e attivo.
Poi arrivò l’Ottocento e, con lui, il revival del Medioevo come epoca di “libertà” comunali e di città in grado di difendere contro chiunque (perfino contro il “tedesco” imperatore, figuriamoci!) le loro istituzioni. E Montaperti entrò a far parte (grazie all’enfatizzazione dell’episodio dell’ultimatum presentato dagli ambasciatori fiorentini in San Cristoforo. Episodio reale? Mah… Forse… Non sappiamo, non sappiamo) della galleria delle eroiche difese delle civiche autonomie. Con qualche imbarazzo. I Comuni medievali avranno pur difeso le loro libertà, ma si scannavano fra sé senza nessun riguardo. E come si faceva a conciliare questa storia di guerre fratricide con l’appello all’unità nazionale e alla comunità di storia? Male. Infatti Vincenzo Buonsignori (nel suo centone di storia senese del 1856) dopo aver redatto una gongolante descrizione della giornata richiama il cavallo quasi sboccandolo e chiosa che “E’ da lamentarsi che si sparse sangue fraterno”.
Il bello è che di quel che avvenne realmente a Montaperti non sappiamo nulla. Se mai ci fu una cronaca coeva (forse… il ricorso ad una fonte avvalorativa scomparsa è una costruzione retorica talmente frequente e talmente comune che ci induce alla prudenza. Ci fu davvero? Non sappiamo, non sappiamo) è un fatto che le narrazioni di Montaperti sono tutte posteriori di parecchi decenni. Sia quelle senesi, sia quelle fiorentine (Giovanni Villani, addirittura, in qualche tratto esplicitamente citato dai cronisti senesi).


Quindi, il 4 settembre di ogni anno, celebriamo un evanescente fantasma. Ma il fantasma di un episodio che non fu solo (come spesso in modo colpevolmente riduttivo siamo portati a credere) uno scontro fra due Comuni, bensì il (provvisorio, certo) punto di arrivo di una storia italiana ed europea. Una storia che aveva coinvolto, sì, Siena e Firenze, ma, contemporaneamente, anche tutte le altre città della Toscana e alcune fuori da questa regione, il Papato, l’Impero, il regno di Francia, quello d’Inghilterra, quello di Castiglia, il Regno Meridionale di Manfredi (tutt’altro che entusiasta, lui, di appoggiare Siena e che ci si appoggiò esplicitamente solo quando si vide sbarrata la strada dell’alleanza con Firenze) e, tramite esso, quel che restava dell’Impero Latino d’Oriente instaurato dai crociati con la conquista di Costantinopoli nel 1204. Altro che una faida di campanile!
Montaperti fu una grande pagina di storia d’Italia: paradossalmente, contribuì a scrivere un esito opposto a quello che si sarebbe potuto ipotizzare all’indomani del trionfo dei ghibellini, ma non per questo non fu un episodio caratterizzante della storia nazionale e della Cristianità.
Sarà un fantasma, ma un fantasma “vivo” che ancora svolazza allegramente e ben accetto in mezzo a noi.

Duccio Balestracci

(maggiori approfondimenti sul suo ultimo libro La Battaglia di Montaperti) e se volete divertirvi, domani sera appuntamento all’Orto de’ Pecci )