Luca Lombardini (Tartuca): “Manca la voglia di giocare al Palio”

Luca Lombardini ha vinto come capitano della Tartuca il 3 luglio 1991 e il 16 agosto 1994.

Per l’aspetto e i modi Luca Lombardini starebbe bene in un film sulla Prima guerra mondiale, come interprete di un generale. Deciso e ragionatore, generale non lo è mai stato, ma capitano sì. E’ stato l’uomo che ha guidato la Tartuca alla vittoria in due Palii, quello del 3 luglio 1991 e quello del 16 agosto 1994. Il primo trionfo targato Lombardini giunse nella contrada di Castelvecchio dopo un’astinenza lunga diciannove anni. Tre anni dopo ci fu la riconferma. Lombardini non è tipo da nostalgie, ma ha molti dubbi sullo stato di salute del Palio odierno. Secondo lui le contrade contano molto meno di un tempo.

Il 3 luglio 1991 la Tartuca rivince il Palio dopo diciannove anni. Come arrivò a quel momento? Si sentiva sulle spalle il periodo di astinenza?
«Avevo già fatto il capitano nel biennio 1983/84 ma con la contrada ci eravamo lasciati male, per così dire. Mi vennero a richiamare nel ’91, ma io non ero molto convinto. Poi quando vidi che a ricercarmi c’erano anche persone con cui avevo discusso e che mia moglie insisteva perché accettassi, allora cambiai idea. C’era nell’aria la sensazione che per la Tartuca stesse per arrivare il cambiamento. Per questo arrivai al Palio di luglio convinto che si sarebbe vinto. L’astinenza si faceva sentire, ma il modo in cui la contrada mi aveva ridato fiducia mi aveva fatto capire che le cose sarebbero andate diversamente rispetto alla mia prima esperienza».

Quel Palio fu rimandato al giorno dopo perché il Nicchio, con Massimino su Yanez, non volle entrare mai e si fece buio. Nella notte qualcosa cambiò a livello strategico?

«Non successe nulla di particolare fra il 2 e il 3, ma quel Palio è importante per un altro motivo. Fu uno dei primi in cui si intravide il tentativo dei fantini di prendere sempre più importanza rispetto alle contrade. Quel rinvio, per esempio, non fu dovuto alla rivalità Nicchio – Montone, ma all’acredine fra Massimino e Cianchino, che montava da noi. La presa di potere dei fantini è proseguita dopo. Nel periodo d’oro del Bruschelli i dirigenti di contrada andavano da lui a farsi dire come fare e chi montare. Se prima c’erano i fantini che aspettavano i capitani ai colonnini della Costarella, ora è quasi il contrario. Adesso manca la voglia di giocare. Tanto è dovuto alla sempre più veloce sostituzione dei capitani. Prima ci si poteva ricambiare i favori, ora non si fa in tempo. E’ il capitano che deve decidere, il fantino dovrebbe eseguire. Non ti dico di considerarlo come un dipendente, ma quasi».

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Nell’agosto del 1994 arriva la sua seconda vittoria da capitano: Il Bufera trionfa su Delfort Song. E’ vero quello che si dice, cioè che sia più facile “rivincere” che vincere la prima volta?
«Sicuramente sì, visto che ti senti più libero e deciso nelle scelte che fai. Hai anche più carisma per i fantini. Io sono sempre stato convinto di una cosa, che nel Palio è importante la partenza. Di conseguenza mi piacciono i fantini “partenti” e per questo mi ero avvicinato al Colagè. Il fatto che avessi già vinto influì sul nostro rapporto».

In quel Palio, a parte Naomy e Imperatore, c’erano solo cavalli esordienti. Voi vi eravate accorti della potenza di Delfort Song o lo scopriste il 16 agosto?
«Per sapere prima il vero valore dei cavalli bisogna conoscerli. Meno male che io avevo come mangini Lorenzo Cerri Vestri e Ivano Poppi. Quest’ultimo in particolare sapeva vita morte e miracoli di ogni cavallo. Per far rendere al massimo un barbero devi sapere tutto ciò che lo riguarda, per esempio come mangia. Noi nel ’94 conoscevamo già le qualità di Delfort Song. Dirò di più, all’inizio era il Bufera che non ci credeva. Cambiò idea dopo la terza prova, grazie a noi e, soprattutto, a Ivano».

Ora possono correre solo i mezzosangue. Lei ha vissuto da capitano la stagione dei purosangue. Meglio ora o prima?
«Per me il purosangue può benissimo correre il Palio, non è vero che sia più fragile. Semmai quello che conta è l’usura del soggetto. Pensiamo a Pytheos, a Vipera, loro erano cavalli adatti al Palio. E’ fondamentale che abbiano l’attitudine al tufo. Alla fine, purtroppo, nella storia del Palio sono morti sia purosangue che mezzosangue».

Quando lei ha fatto il capitano non c’erano i telefoni cellulari. Come comunicavate nei giorni di Palio?
«Io, mia moglie e il mio figliolo controllavamo i telefoni che avevamo tra lo studio dove lavoravo e casa. Poi c’erano gli apparecchi dei mangini. Fissavamo tutti gli appuntamenti nelle agende e facevamo con quello. Se penso che adesso vengono lasciati i cellulari ai fantini…»

La contrada deve essere sempre conciliante verso il fantino o a volte serve non esserlo?
«Si deve instaurare un legame come tra datore di lavoro e dipendente. Vanno benissimo i buoni rapporti, ma senza darsi i bacini. Se uno fa il furbo gli va detto. A volte i legami sono troppo stretti, come se il fantino fosse un contradaiolo e questo non va bene. Chi sale a cavallo va pagato e va rispettato, niente di più».

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Secondo lei ogni contrada ha una propria modalità di fare il Palio?
«Per me sì. In ogni rione ci sono passaggi di conoscenze, perché c’è il confronto con i dirigenti del passato. La tradizione della Tartuca per me ha pesato e ha inciso nel mio modo di fare il Palio».

Il giorno del Palio per il capitano. Cosa vuol dire?
«E’ uno dei giorni più importanti della vita. E il bello è che ti senti completamente impotente. Ti rendi conto che quello che hai fatto nei giorni e nell’annata precedente può vuol dire molto oppure nulla. Il giorno del Palio da capitano è bello e brutto allo stesso tempo. Quando vinci va bene, ma quando non lo fai, a prescindere da come sia andata la corsa, è tutto un rimuginare. Ti rimane la sensazione di una cosa incompiuta».

E sul palco dei capitani? Vi dicevate qualcosa?
«Certo. Ma quello che voglio ricordare è che anche con i capitani della Chiocciola, pur non essendoci stato un grande feeling, c’era una certa comunanza di sentimenti, come se si condividesse lo stesso destino. Vivevamo la medesima aura di fatalità».

Emilio Mariotti

(si ringrazia Giovanni Gigli per le foto)