Le storie del manicomio: gli angoli di Dorina

Salvare la memoria storica dell’unico panopticon benthamiano ancora esistente in Italia (l’edificio del reparto Conolly nell’ex ospedale psichiatrico San Niccolò, a Siena): Sienanews sostiene la causa e fa conoscere ai propri lettori la storia e le ombre di un pezzo di storia della città.

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Nel piccolo ma notissimo libro Flatlandia (E. A. Abbott – 1884) si parla di una società in cui esistono solo due dimensioni, un mondo piatto, senza l’altezza. L’autore descrive nel dettaglio i ruoli sociali svolti dagli abitanti che sono naturalmente figure piane (triangoli, quadrati, poligoni circonferenze, ecc.). Il compito dei medici (di solito sono dei quadrati, come altri professionisti) consiste nell’aggiustare gli angoli delle figure irregolari. Se ci sono dei triangoli sbilenchi, i medici con la loro arte, devono uniformarli agli isosceli o agli equilateri, se c’è un quadrato storto il compito è di renderlo preciso, perfetto.

È una buona descrizione di noi psichiatri, che, pur abitando un mondo a tre dimensioni, riceviamo spesso un mandato sociale dello stesso tipo: regolarizzare gli irregolari, renderli uniformi allo standard. Chi fa lo psichiatra, magari per avere al proprio interno qualche irregolarità (ma chi non ne ha?), ha spesso simpatia per i diversi e magari vorrebbe tentare di essere un mediatore tra il mondo dei regolari e quello degli irregolari. Ma tutto spinge in una direzione normalizzante ed opporsi non è semplice.

Ma come riuscirci in una situazione così strana e irregolare come quella che sto per raccontare? Una che non ha famiglia, non ha casa, non ha futuro e ha un passato labile e confuso? E alla quale, per colmo di sfortuna, è capitato di vivere in un periodo storico in cui tutto sta cambiando e anche coloro che potrebbero e dovrebbero aiutarla, gli stessi operatori, non sanno bene dove sono e cosa stanno facendo?

La storia che sto per raccontarvi è molto vicina a noi, la protagonista è tutt’ora vivente e questo mi obbliga a darle un nome di fantasia ed a cambiarne i particolari per proteggere la sua identità, evitando così che sia riconosciuta. Ma la voglio raccontare perché mi pare emblematica del periodo immediatamente successivo alla legge Basaglia (maggio del 1978). Fu quello un periodo complicato e difficile in cui il vecchio non c’era più, ma il nuovo era di là da venire. La protagonista, e gli stessi operatori, si sono trovati in mezzo ad un guado, vivendo quel cambiamento e le sue inquietudini nei modi più diversi, per la nostra paziente drammatici.

Dorina nasce a Firenze nel 1957, la madre è una prostituta che l’abbandona al brefotrofio di Siena. La donna non è nuova a questi comportamenti, pare che avesse già abbandonato un altro figlio. Rimane al brefotrofio per circa sei anni, durante i quali evidenzia un deficit intellettivo di grado medio, con un test di intelligenza che risulta inferiore ai 60 punti. Si presentano anche problematiche comportamentali che motivano il trasferimento all’Istituto Psicopedagogico di Porta Romana, comunemente chiamato il manicomio dei bambini. Il destino di quei piccoli seguiva un iter sempre uguale, allo Psicopedagogico fino alla maggiore età e poi, tranne casi rarissimi, trasferimento al manicomio dei grandi, insomma al San Niccolò, dove proseguiva, per sempre, la vita chiusa.

Ma Dorina ha un carattere instabile, protestatario, non si adatta mai del tutto alla routine ospedaliera e trova un suo drammatico modo di protestare. Tenta di farsi del male, compie gesti quali tagliarsi oppure ingoiare oggetti estranei e pericolosi come orologi, lamette, spilli da balia ed altre cose “indigeribili”. Forse è il suo modo, spietatamente concreto, per dichiarare al mondo che quello che le viene offerto dall’istituzione per crescere e svilupparsi è indigesto e nocivo. Questi comportamenti, avvicinandosi l’adolescenza, si infittiscono, diventano quasi cronici, usuali. In due anni si contano tredici tentativi di questo tipo, alcuni dei quali necessitano di ricovero in Chirurgia.

È chiaramente un caso “scomodo”, quasi ingestibile, fatto di angoli tutti “irregolari”, come si direbbe in Flatlandia. Viene allora tentato l’inserimento in una casa famiglia, sperando che un’atmosfera più intima, familiare possa giovarle. Prima ne viene individuata una a Firenze, ma lì regge solo poche settimane, poi una a Siena. Ma il comportamento non cambia di molto e riesce a mettere in crisi gli operatori della casa famiglia, abituati a gestire situazioni meno complicate. In un ambiente in cui convivono situazioni socialmente difficili, ma più tranquille, si rende necessario mettere in atto una sorveglianza continua. Tutti sono spaventati dalla minaccia che possa farsi ancora del male. Il suo comportamento sbaraglia ogni difesa, non sembra legare con nessun operatore ed ogni riunione tra gli addetti della casa famiglia ha sempre lo stesso tema: Dorina e i suoi misfatti. A questo punto è diventata una ragazzina di bassa statura, grassottella, con i capelli scuri corti, che dimostra meno anni di quelli che ha. Ma forse il tratto distintivo è lo sguardo dei suoi occhi chiari. È feroce e disperato, a volte ti fissa in un modo così insistente da diventare quasi imbarazzante.

Si avanza l’ipotesi che possa rientrare al San Niccolò anche perché, nelle sue inquietudini, lei stessa sembra, a volte, rimpiangere quella collocazione. Qui scatta una delle coincidenze complicate, una delle tante, della sua vita. La legge Basaglia, che blocca per sempre gli accessi allo Psichiatrico, è stata approvata da poco e prevede un periodo transitorio in cui chi è stato ricoverato in Manicomio può rientrarci, se ne fa espressa richiesta. Nessuno però tra gli operatori, che in quel momento la seguono, sposa fino in fondo quell’ipotesi. Il suo caso è ormai un terreno di scontro tra chi vuole dimostrare che il manicomio non serve e chi invece al contrario sostiene che casi come quelli non hanno altra possibile destinazione. Mentre si discute della cosa, il tempo passa e finisce così anche la possibilità di un ritorno al San Niccolò. In pratica nessuno sa dove poterla collocare.

In quel tempo al Santa Maria della Scala sta muovendo i primi passi una Divisione di Psichiatria, una rarità all’interno di un ospedale generale, creata con l’intento di costituire una piccola avanguardia di nuovi metodi di cura. È collocata vicino al reparto Neuro e insieme a pratiche innovative (come le riunioni giornaliere di reparto con i pazienti) adotta i tipici meccanismi di un ospedale generale. Pazienti in pigiama, a letto, aspettando la visita dei medici, infermieri che somministrano le medicine o le flebo, ricoveri che durano qualche settimana e poi ritorno a casa.
Dorina viene mandata lì e comincia una lunghissima degenza (durerà sette o otto anni, probabilmente è un record mondiale!) in cui la si vede spesso vagare per i corridoi dell’ospedale senza uno scopo, senza una meta. Capita così che più volte si intrufoli in ambienti impropri (uffici, magazzini o altri reparti) dove naturalmente è accolta sempre con sorpresa, se non con paura. Una volta capita perfino che dia fuoco ad alcune carte, provocando naturalmente grande panico e sconquasso. In altre occasioni scappa dall’Ospedale e sempre per dirigersi verso il San Niccolò.

Ma là (a Porta Romana – diceva lei) ormai non può più andare e qui (all’ospedale delle Scale – così lo chiamava) non riesce a stare. Si, è vero, diventa un po’ la mascotte del piccolo reparto di Psichiatria, ma la sua vita ricorda un film di qualche anno fa, in cui un uomo, per una serie di ragioni, vive qualche anno, senza mai uscire, all’interno di un aeroporto. Dorina invece vive in un ospedale, anni e anni senza mai allontanarsi da quei muri, perennemente in pigiama, cambiando continuamente compagne di camera le quali se ne vanno e tornano a casa, mentre lei non solo non può farlo, ma una casa proprio non ce l’ha.

La sua nostalgia del manicomio era forse la nostalgia dell’unico luogo in cui aveva vissuto un pizzico di stabilità e di routine quotidiana con una parvenza di normalità. Negli anni dello Psicopedagogico, aveva acquisito il diploma di quinta elementare, ma non sapeva “davvero” scrivere e nei lunghi pomeriggi ospedalieri riempiva interi fogli di parole e segni illeggibili dove le uniche scritte comprensibili erano brani del gergo ospedaliero che sentiva negli orecchi tutti i giorni.

Poi, incredibilmente, qualcosa cambia e comincia il suo miglioramento. Insieme al progressivo assestamento dell’assistenza psichiatrica a Siena anche il marasma di Dorina si quieta. Molti dei suoi feroci comportamenti giovanili si placano, poi spariscono del tutto. A Siena si crea una rete di case famiglia, più o meno protette, in cui viene di nuovo tentato il suo inserimento. Per caso si trova a tornare in quella in cui aveva tanto preoccupato gli operatori, che nel frattempo sono cambiati, sostituiti da altri più esperti. Stringe amicizia con le compagne di casa, comincia a saper svolgere piccoli compiti domestici ed a poter ogni tanto ballare da sola ascoltando la radio, una delle cose che più le piaceva fare. Forse tutto quello che ci chiedeva era un nido sicuro, dove poter vivere e scordarsi tante traversie.

Da venti anni vive stabilmente nella rete delle casa famiglia, è diventata una tranquilla signorina invecchiata che mi capita qualche volta di incontrare a passeggio per città, magari insieme a qualche operatore o con le sue amiche. E come se la psichiatria senese e Dorina, insieme, avessero attraversato un passaggio pericoloso e impegnativo di cambiamento, subendone i contraccolpi, ma alla fine uscendone entrambi ancora vivi ed in grado di progredire.

E forse i suoi “angoli”, forse solo per suo merito, si sono davvero un po’ regolarizzati, lasciandole un orizzonte di vita che ci auguriamoci lungo, sereno e commisurato alle possibilità che la natura, con lei sempre matrigna, le ha dato.

Andrea Friscelli