Le storie del manicomio di Siena: suor Annunziata Silvestri

 

Il 22 gennaio del 1910 giunge al ricovero di San Niccolò una donna di 36 anni, si chiama Annunziata Silvestri ed è una suora. Viene descritta come mingherlina, bassa, gracile e depressa, si viene inoltre a sapere dalla cosiddetta “modula informativa” (il primo foglio che veniva compilato all’ingresso di un nuovo malato) che è figlia di ignoti. Impossibile non ricavare l’impressione di un’esistenza nata ed avviata su un binario solitario, quasi morto.
Comincia così una storia clinica non particolarmente notevole, che finisce con una dimissione per miglioramento, ma che per certi aspetti si presta ad alcune riflessioni interessanti. La prima delle quali riguarda il numero delle ricoverate suore in manicomio. La mia impressione è che sia un numero alto, che meriterebbe una indagine statistica per confermarla o smentirla. Si potrebbe supporre un disagio diffuso in una popolazione di donne che probabilmente non avevano “davvero” scelto quella vita. Forse il disagio nasceva dal trovarsi in uno stato di più o meno forzata costrizione.
Ma andiamo con ordine.
Suor Nunziatina proviene da Lucca e l’esordio del suo disturbo è segnato da una fase di eccitamento con delirio religioso. Al momento del suo arrivo a Siena però tale fase sembra già essere virata verso una depressione che spegne l’eccitazione e mette la sordina al delirio. Una prima notazione è che di questo delirio si parla più volte in cartella ma non lo si descrive mai, un po’ perché a Siena tale sintomo non compare quasi mai e anche per un atteggiamento di grande discrezione da parte dell’intero staff che sembra caratterizzare tutto il ricovero.
La sua durata tocca i sette anni e pensate che in cartella, a parte la visita iniziale, si trovano solo tre aggiornamenti clinici. È chiaro quindi che le notizie utili sono poche ed il decorso clinico rimane quasi sconosciuto.
Si apprende comunque che al suo arrivo a Siena presenta una situazione quasi catatonica con un completo disorientamento nel tempo e nello spazio, non risponde alle domande che le vengono poste, è attonita, abulica. Sta immobile evitando ostinatamente anche lo sguardo di chi le sta parlando. Quando è interrogata volge lo sguardo a destra, a sinistra in modo interrogativo mostrando di non aver capito ciò che le si chiede o addirittura chi le parla. La paziente è anche molto deperita, da qualche tempo si ostina a non mangiare se non pochissimo e forse anche per questo tutte le sue funzioni mentali appaiono come attutite e spente.
Nelle scarne note cliniche presenti si capisce che nel tempo la situazione non cambia di molto. Nel maggio del ’14 (sono quindi passati più di 4 anni) il medico scrive:” è quieta, diffidente, debole di mente, talvolta laboriosissima, talaltra si nasconde e non vuole vedere nessuno, depressa. Non mancano ancora episodi di eccitamento, durante i quali rompe la roba, lacera, fa chiasso ed è necessario allora allontanarla dal reparto tranquille dove è stata assegnata. Fisicamente è deperita”.
Passano altri tre anni circa e l’8 novembre del 1917 viene dimessa migliorata con una diagnosi di “psicosi ciclotimica” con la quale, per quel che conta, mi sento di concordare.
Ogni cartella conserva oltre al materiale clinico anche una serie di documenti di tipo burocratico relativi al ricovero. Questi fogli sono di solito privi di interesse, in altri casi (questo è uno di quelli) invece è proprio tra quella documentazione che si annidano i dettagli che permettono di capire meglio alcune vicende. Ed è tra questi allegati che ho trovato lo spunto per alcune riflessioni che definirei di politica psichiatrica.
Il primo è il certificato del prof. Andrea Cristiani, direttore del manicomio di Lucca e professore universitario a Siena che, viste le condizioni della paziente, ne consiglia il ricovero con lo scopo di: “allontanare l’inferma dall’ambiente ove si è ammalata, isolarla affidandola alla vigilanza e trattamento curativo di una apposita casa di salute”. Lì per lì, non si capisce perché la “apposita casa di salute” non possa essere quella che lui stesso dirige. Ma ecco che ci viene in soccorso un’altra lettera che spiega. È scritta in un ampolloso stile burocratico, piena di svolazzi e di termini come “Illustrissima”, “obbligatissima”, ecc. da una signora di Lucca, emissaria di un’altra signora ancora più importante che evidentemente guida e protegge le sorti di suor Nunziatina. Eccola:
Preg.mo Signore
Di ritorno a Lucca ho tosto riferito alla Sig.ra Pia Crispolti su tutto ciò che si è trattato riguardo al ricovero della buona giovane Annunziatina Silvestri; ho esposto la sicurezza degli speciali riguardi che troverà costà, e particolarmente la bontà e cortesia che Ella ebbe di promettermi l’agevolezza, tanto da noi desiderata, che la giovane abiti notte e giorno una camerina sola. È vero che nella buona stagione dovrà prendere aria nei giardini, ma essendo molto ampi e potendo scendervi nelle ore meno frequentati dalle altre infelici, non si troverà a contatto con esse. Con tali benevoli concessioni la Sig.ra Pia Crispolti ha deciso di seguire il suo savio consiglio cioè che la giovane rimanga in cotesto manicomio; essa ringrazia meco vivamente la S. V. Ill.ma per tanta sua bontà e gliene professa la più verace riconoscenza.
La retta mensile di 60 £ (circa 250 € di oggi N.d.R.) verrà anticipata mese per mese e si spedirà o per mezzo della Rev.ma Madre Cumino, oppure direttamente a chi Ella crederà meglio.
Quando i Ss. Medici avranno conosciuto la giovane ed avranno potuto bene osservarla da formarsi un giusto concetto, desideriamo averne notizie esatte e sapere quanto e quando si possa sperare una guarigione, oppure se col tempo potrà rendersi affatto innocua ecc.
Rinnovandole l’assicurazione del vero grato animo mi dico colla più rispettosa stima di Lei Preg.mo Signore
Dev.ma Obbl.ma
M. Maddalena Zoli
Lucca 25 (gennaio) del 1910

Pare evidente che suor Nunziatina goda di un trattamento privilegiato forse per l’abito che porta, ancora di più per la protezione di cui gode. Mi limito a constatare questo fatto senza chiedermi perché un’agiata signora di Lucca stia seguendo le sorti di questa povera orfana. Si aprirebbero scenari pieni di ipotesi impossibili da dimostrare, certamente però molto interessanti.


Sta di fatto che, per qualche motivo, la paziente usufruisce del miglior trattamento possibile in quegli anni.
E quali sono gli indirizzi di fondo del trattamento? La discrezione di un certo isolamento, il poter godere di una camera singola, forse, chissà, anche di un vitto speciale. Ma a ben pensare questi sono solo gli aspetti più superficiali delle linee guida della terapia di quegli anni. Ciò che sta alla base di tutto lo possiamo riassumere in alcune parole fondamentali e cioè: distacco dall’ambiente in cui si è manifestato il disturbo, isolamento da questo e anche “dalle altre infelici”, separazione da ogni contesto civile per favorire il rilassamento ed il recupero di un equilibrio mentale della cui perdita per altro si sa poco. Forse il corollario di questo atteggiamento (in questo particolare caso) è anche il non scrivere troppo in cartella, il non fare la foto segnaletica che in quegli anni a tutti o quasi veniva fatta. Quindi distacco, separazione e isolamento sono gli aspetti terapeutici considerati più importanti (siamo ovviamente in epoca pre psicofarmacologica), volendo essere sintetici si potrebbe adoperare un’unica parola: segregazione.
È manifesto come questi siano i concetti che stanno alla base della logica propria del manicomio. La cittadella dei folli, autarchica e così ben organizzata da suscitare ancor oggi ammirazione, era, diciamolo, sostanzialmente una gabbia e coloro che vi giungevano entravano in una sorta di universo parallelo distaccato ed isolato dal più grande universo di tutti. Così, date anche le lunghe, a volte illimitate permanenze, le radici con il “fuori” si perdevano e queste persone finivano per essere, da un lato, scarsamente conosciute dagli addetti ai lavori, dall’altro quasi scordate da coloro che prima le conoscevano fuori.


Nel caso specifico di suor Nunziatina si può pensare che, essendo figlia di ignoti, abbia avuto fin dall’inizio della sua vita esperienza di istituzioni “totali”, magari prima il brefotrofio, poi il convento, poi il manicomio, sempre ubbidendo a una logica di distacco, separazione e isolamento.
Tale logica (a ben pensare solo di poco meno feroce di quella dei lager nazisti) portava inevitabilmente alla concentrazione di molte persone in luoghi separati e in fondo ha portato in sé le premesse per il crollo terapeutico ed etico dell’istituzione manicomiale. Come riuscire ad aver cura di una tale massa di persone? per di più tutte bisognose di attenzioni particolari, di un contatto personalizzato? Una missione impossibile che in realtà poneva le premesse, quando andava bene, per un atteggiamento di mera custodia, quando andava peggio, di un completo abbandono di molti di loro.


Quando dalla seconda metà del secolo scorso (Basaglia comincia la sua azione a Gorizia nel 1961) si cominciò a criticare fortemente il sistema manicomiale, lo si fece anche partendo da alcune premesse di fondo che andavano esattamente nella direzione opposta alle precedenti. Non più distaccare ed isolare, ma invece cercare di studiare attentamente l’ambito familiare e le condizioni sociali in cui quel disturbo si era creato, intuendo che le radici stavano proprio lì, in una serie di rapporti sbagliati o malfunzionanti. Si va affermando così l’idea di una Psichiatria che deve spostare il suo asse di lavoro dal grande ospedale al “territorio”, cioè molto più vicino all’insorgere del disturbo, corredata da una volontà di fare prevenzione, scansare le ricadute, evitare nuovi ricoveri, ecc.
Ed inoltre, lo segnalalo con personale convinzione, un atteggiamento di interesse verso la storia delle persone che la malattia in qualche modo ci consegna. Con questo “noi” intendo certamente gli addetti ai lavori, ma più estesamente tutta la società che tende a scordarsi di questi cittadini.
Chi ha il compito di curarli con loro deve stare insieme, parlare, capire. Questo non assicura sempre la guarigione, ma certo permette di capire di più chi abbiamo di fronte e forse di prendere provvedimenti terapeutici più meditati e personalizzati.
Per fare un esempio che ci riporta a suor Nunziatina, un delirio va sempre ascoltato, mai con sufficienza o peggio con un atteggiamento squalificante. Se ben capito un delirio rivelerà sempre qualche brano di verità della storia di chi lo ha prodotto. Se fosse venuto un po’ meno il riserbo sul delirio religioso di suor Nunziatina forse oggi saremmo in grado di capire qualcosa di più dei problemi di questa giovane donna.
Invece dobbiamo malinconicamente chiudere la sua cartella con la sensazione di non averne capito molto.

Andrea Friscelli