Il Drappellone e quell’eccitante difficoltà per i pittori, tra sacro e profano

Brutta bestia per i pittori realizzare il drappellone: c’è una insana commistione di difficoltà fra il sacro e il profano. E poi quella maledetta dimensione che non ti permettere di estendere in larghezza le idee, la seta che sfugge al pennello, quel gioco di riflessi che impietoso gioca nella sua “straordinaria” lunghezza. Meglio affrontare l’impegno con leggerezza, magari facendo finta di non aver compreso che questo è innanzitutto un oggetto del desiderio e come tale va trattato. Una leggerezza più facile e probabile per i pittori che provengono da fuori, che non subiscono certe pressioni psicologiche, che magari vedono il Palio come un gioco di luci, colori e impressioni. Intanto, parlando invece di autori di casa nostra, non ci sembra che nessun artista abbia visto realizzato il sogno di vedere la propria opera nelle stanze della loro Contrada. Anzi, ricordiamo che l’opera del chiocciolino Oscar Staccioli è andata in Tartuca nel 1972, così quella di Vita di Benedetto, torraiola, prese nel 1984 la via di Fontebranda. Agli altri è andata un po’ meglio, diciamo “meno peggio”, ma non ci ricordiamo trionfi poi legati per sempre ai propri colori. Forse, ma andiamo per tentativi, quella che era più legata al territorio della Contrada vincente è Maria De Maria, che frequentava l’Istituto d’Arte di via della Sapienza, che dipinse il cencio del luglio 1921 vinto dal Drago. Prima donna a dipingere un Palio. Ma l’approssimazione è inevitabile. Insomma, il drappellone è un’opera sempre incompiuta per i giudizi dei contradaioli, mai splendidamente unanimi. L’inizio del novecento vede pochi artisti che si ripetevano nel tempo: la coppia Pietro Loli Piccolomini- Carlo Merlini sono stati i Mogol-Battisti dell’arte senese per un lungo arco di tempo. Hanno saputo mischiare motivi patriottici di una senesità a tratti davvero scontata con accenni di liberty e futurismo. Quello che la pancia del popolo richiedeva a gran voce, pur concedendosi qualche spunto originale. Poi gli anni del Giunti, del Piantini, di artigiani dell’immagine fino ai fratelli Marzi, quando anche l’importanza comincia a farsi largo nelle esigenze dei contradaioli, con nuove generazioni che avevano altre ambizioni, culturali e patriottiche. La svolta con sindaco Roberto Barzanti all’inizio del decennio settanta, l’arrivo dei grandi maestri internazionali, la presa di coscienza dei nostri pittori, i mondi che si sovrappongono, le esigenze che cambiano. Tutti hanno qualcosa da nascondere quando hanno messo il pennello in questa maledetta seta: simboli segreti, previsioni di vittoria, promozioni, oggetti scaramantici. L’interpretazione della Festa finisce quasi in secondo piano: ma, se parliamo di autori senesi proprio perché Emilio Giannelli andrà ad ingrossare questa folta schiera, ci piace ricordare, senza inutili classifiche, la pop art di Marte per lo straordinario del 1969, la bellissima “bestia” di Marco Tanganelli per l’agosto 1978, la preziosa rivoluzione iconografica di Pizzichini del 1991. Ma il Palio, lo ripetiamo, è una difficile esperienza che segna la vita di un’artista, che si lascia coinvolgere in un gioco dove anche lui è semplice comparsa. Leggerezza ed ironia, come le parole di Mino Maccari, artista a tutto tondo, che pensò a voce alta mentre la mano si avvicinava al bianco della seta:”Ma la Madonna come la faccio? Ho dipinto solo donnine allegre e ben truccate. Forse la dipingerà un angelo all’ultimo momento!”.

Massimo Biliorsi

(nella foto, un dettaglio del Drappellone di luglio 2017)