Fiere e tombole: quando il Palio rischiò di affogare nel kitsch

Il Palio è una risorsa: questo i senesi l’hanno chiaro fin da prima che il Palio delle contrade esista.

L’anonimo fiorentino che nel 1506 racconta la grande caccia in Piazza del Campo, testimonia che nei giorni prima dell’Assunta – quando si svolge lo spettacolo – in città non c’è più un letto disponibile e i visitatori devono accontentarsi di dormire per strada. Agosto, d’altra parte, è il mese ideale per attirare gente in città e far lavorare locande, osterie e tutto l’indotto (come lo definiremmo oggi) che la manifestazione crea.

Fra le motivazioni delle ripetizioni della corsa a agosto – prima che la scadenza del 16 divenga data canonica – non manca, del resto, mai il riferimento all’opportunità di richiamare visitatori o di indurre quelli che in città già ci sono a prolungare il loro soggiorno. Tanto perché sia chiaro: se anche voi avete sentito la ridicola giaculatoria del desiderato Palio a porte chiuse, fatevi una bella risata. Il Palio, a porte chiuse, non lo è mai stato, né mai i senesi hanno “realmente” desiderato che lo fosse.

Il richiamo turistico si intensifica nel corso dell’Ottocento, quando, ritrattasi l’aristocrazia dall’organizzazione attiva della festa e di fronte alla sempre minor empatia fra Palio e amministratori locali, sorgono in città comitati di cittadini (soprattutto commercianti) intenzionati a costruire intorno alla scadenza paliesca dell’agosto un cartellone di eventi che incentivino il soggiorno in città dei visitatori.

Nel 1868, sui giornali locali cominciano a intravedersi i primi significativi segnali in merito: a commento della nascita di un sodalizio senese che si ispira a quel che avviene a Firenze (con il Carnevale) e a Torino (con le feste organizzate dalla società “Gianduja”), un anonimo giornalista de Il Libero Cittadino, scrive che “A Torino ci si diverte e si fan feste per guadagnare, in Siena invece ci si diverte per divertirsi, mentre potremmo ogni anno approfittare di uno spettacolo, la Corsa in Piazza Vittorio Emanuele, che è per se stessa la più bella e la più popolare festa d’Italia. E perché questo? Per la nostra indolenza, perché nessun vuol assumersi l’incarico di dare alle nostre feste quella importanza o meglio quell’indirizzo necessario affinché il paese ne guadagni”. Fra le proposte c’è anche quella di far pagare “una tenue tassa di ingresso” al Palio anche a chi assiste da dentro la piazza, e l’articolista conclude con un proclama: è ora di “svegliarsi e cominciare ad essere attivi: il mondo è di chi sa pigliarselo, non degl’ignavi e dei pigri”.

Il neonato comitato (che, inizialmente, vorrebbe chiamarsi “Brigata Godereccia”, ma che poi ripiegherà sul  più sobrio e castigato nome di “Società delle Feste in Siena”) fa esplodere un vulcano di manifestazioni che dovrebbero accompagnare il Palio e che, di fatto, finiscono invece per affogarlo in una ridda di fiere, lotterie, tombole, gare sportive, fuochi d’artificio, mercati di bestiame, gare di velocipedi, concerti, opere liriche e rappresentazioni di spettacoli delle filodrammatiche locali. Né ci si limita a questa cornice: si mettono le mani proprio sul Palio e sulle Contrade, organizzando il cosiddetto “Palio alla Romana” con nove o dodici contrade partecipanti, scandito in tre batterie di selezione e una batteria finale fra le vincitrici.

E non ci si accontenta: quelle che non hanno potuto prendere parte alla finale disputeranno una corsa di “consolazione”, prendendo così lo spettatore per sfinimento e il contradaiolo per overdose di adrenalina paliesca. E quando non si fa quello alla Romana, si fa il Palio dei cavalli scossi, fatti correre pungolati dalle perette puntute attaccate alla coda. Almeno fino al 1907 quando, dopo che si sono verificati incidenti per i poveri animali terrorizzati e le vibrate proteste degli enti di protezione degli animali, questa barbara manifestazione verrà finalmente soppressa.

I sodalizi cambiano nome, ma non finalità: agosto e il Palio sono una miniera d’oro da sfruttare a man bassa. A inizio Novecento l’ennesimo comitato recepisce un’idea che era nata proprio in seno al Magistrato delle Contrade che, però, si era ritirato in buon ordine davanti alla contrarietà del Comune: fare il Palio a sorpresa. La nuova società (si chiama “Società degli Industriali e Commercianti”) riesce a mettere in piedi questa versione della festa senese nel 1909 e la ripete nel 1919 (ne era prevista un’altra nel 1913 ma diluviò e non se ne fece di niente) con poca convinzione degli stessi senesi perché la grottesca formula è l’esatto rovesciamento della normale procedura: si prendono i cavalli e i fantini che hanno corso il giorno prima e, la sera del 17, si estraggono a sorte dieci contrade, si abbinano, sempre a sorte, i cavalli e, cosa del tutto inconsueta, anche i dieci fantini, i quali sono però tenuti all’oscuro della destinazione cui la sorte li ha indirizzati, fino al momento di salire a cavallo. Men che meno sanno alcunché gli spettatori fino a quando i cavalli escono dall’Entrone per avviarsi alla mossa. Già alla prima edizione le reazioni erano state critiche: sul giornale Siena Nuova si legge: “Cosa non possiamo né ammettere né naturalmente approvare è il palio a sorpresa perché, se a certi spettacoli si tolgono i loro pregi caratteristici e tradizionali perdono affatto lo scopo di essere”.

Non si sarebbe potuto dir meglio di questa buffonata. Che non è nemmeno la sola. Quali e quante altre ce n’erano? E, secondo voi, io il 5° capitolo de “Il Palio di Siena. Una festa italiana” (edizioni Laterza) che l’ho scritto a fare? Per passare il tempo? Dai: aprite il libro e leggete, che poi ve lo chiedo all’esame.

Duccio Balestracci