Due preziosi drappi del Seicento tornano alla luce in Provenzano

Tornano all’originale splendore due preziosi drappi seicenteschi, nuovamente esposti nella loro collocazione originale sulla volta dell’abside della collegiata di Santa Maria in Provenzano dopo il restauro avvenuto grazie al contributo del Lions Club Siena.
I drappi sono stati presentati alla comunità nei giorni scorsi con una cerimonia alla quale sono intervenuti il sindaco Bruno Valentini, oltre al presidente dei Lions senesi Florio Faccendi e le restauratrici Caterina Fineschi e Roberta Cappelli, titolari del laboratorio L’Arcolaio, che hanno sapientemente eseguito il non facile restauro.

 

I drappi furono tolti dalla loro collocazione originale nel 2000, in occasione dei restauri della chiesa; già gravemente danneggiati dal tempo, furono malamente depositati e da allora se ne erano perse le tracce. Come ha spiegato il parroco, don Enrico Grassini, furono ritrovati da lui stesso nel fondo di un armadio delle sacrestie, cinque anni fa, in pessimo stato di conservazione, con gravi danni alla preziosa stoffa corrotta dal tempo e dall’incuria. Immediatamente furono segnalati alle autorità competenti e i Lions, nella persona dell’allora presidente Luca Garosi, si proposero come finanziatori di un eventuale restauro.
È innegabile infatti il valore artistico dei due pezzi gemelli: due grandi drappi di velluto rosso, sui quali è stata applicata una parte centrale in lampasso dorato e decorato a motivi vegetali: una stoffa preziosissima e assai delicata. Lungo tutta la cornice si susseguono ricami dorati e applicazioni di stoffa dipinta che descrivono le generalità dei committenti e i loro stemmi prelatizi.


Ma non è solo il valore artistico a fare la preziosità dei manufatti, è soprattutto la testimonianza storica che essi rappresentano, ossia la fervente attività mecenatizia di un patriziato senese che nel XVII secolo aveva uno spessore di tutto rilievo anche sul piano culturale; testimonianza di una Siena che risorge nella nuova compagine politica realizzata dallo stato mediceo in tutta la Toscana a partire dalla metà del secolo precedente, dagli eventi cioè traumatici della caduta della Repubblica. La Collegiata di Provenzano è infatti forse la più significativa testimonianza storica di un periodo, il XVII secolo, che dovrebbe essere riletto con intelligenza critica e onestà intellettuale – e avrebbe tanto da insegnare anche alla Siena di oggi – nelle dinamiche attraverso le quali il potere del sovrano mediceo si inseriva con intelligenza in un tessuto tutto particolare come la riottosa e fiera Siena. I Medici infatti non vollero mai sovrapporsi alle antiche istituzioni repubblicane, ma si proposero come i loro garanti e i loro continuatori: mantennero in vita tutta la struttura dell’antico Stato e neppure occuparono gli spazi fisici tradizionali del governo senese come il Palazzo Pubblico, preferendo installare la loro rappresentanza politica nel nuovo Palazzo del Governo di fianco al Duomo. Furono i Medici i primi a promuovere il culto della Madonna di Provenzano e a finanziare la costruzione del nuovo santuario, certamente con un’arguta intuizione a duplice effetto: intercettare la benevolenza dei Senesi con un gesto “riparatore” nei confronti dell’offesa sacrilega arrecata all’immagine della Madonna durante l’assedio imperiale, ma soprattutto incanalare e controllare l’antica devozione mariana della Città e del territorio in un nuovo corso, ben consapevoli della valenza politica che a Siena aveva sempre avuto il culto alla Madonna. La conseguenza di questa intuizione tattica fu quella di istituire, nel 1614, l’Opera di Santa Maria in Provenzano, l’organismo cioè che per quasi quattro secoli avrebbe amministrato, mantenuto e disciplinato il patrimonio della nuova chiesa.

Un organismo di completa composizione laicale (il titolo di Insigne Collegiata e l’istituzione del Capitolo dei Canonici sarebbe arrivato vent’anni dopo, nel 1634 con Urbano VIII), i cui membri venivano direttamente scelti dal Granduca fra le famiglie più notabili della Città. Una gratificazione non indifferente per il patriziato cittadino, che si ritrovava così legato alla signoria medicea da un ulteriore vincolo di riconoscenza. In questo contesto di rafforzamento istituzionale in senso moderno dell’aristocrazia cittadina, sicuramente potenziata dai tempi della tumultuosa e instabile politica dell’ultima Repubblica di Siena, si collocano le preziose commissioni artistiche per la nuova chiesa della Madonna di Provenzano, che scatenarono una vera e propria competizione fra le grandi famiglie del patriziato senese. Dato il contesto per cui queste opere venivano commissionate, le più consistenti donazioni furono proprio da parte delle cosiddette “famiglie papali” senesi: iniziarono i Piccolomini realizzando il primo altare laterale di destra (altare di S. Cerbone), anche se ormai in corso di declino soprattutto nei legami con la finanza romana, e le due più recenti consorterie dei Borghese (primo altare laterale a sinistra intitolato a S. Lorenzo e a S. Caterina) e dei Chigi (con le donazioni di arredi e importanti reliquie da parte di papa Alessandro VII). È assai interessante notare quali fossero le famiglie senesi che nell’alternarsi di queste due “superpotenze” Borghese (con Paolo V) e Chigi (con Alessandro VII), costituivano il loro partito clientelare. Così in Provenzano, in epoca borghesiana troviamo committenze e donazioni soprattutto Bichi, ma emergono anche i Petrucci e i Venturi con la loro fiera appartenenza all’Ordine di Malta.
Arriviamo finalmente ai drappi, o meglio, ai committenti dei due drappi, che si collocano con le loro famiglie proprio nell’ambito delle consorterie satelliti dei Chigi, ormai affermatisi anche a Siena con l’elezione pontificia del cardinal Fabio. Papa Alessandro infatti, fra le altre donazioni fatte alla Collegiata, inviò un prezioso drappo in velluto rosso e tessuto oro, riportante le armi pontificie e le insegne chigiane. Il drappo, collocato nella parte alta dell’abside, appartiene alla tipologia dei drappi papali che si calano tutt’oggi dalle finestre e dai balconi dove il Papa si affaccia. A corredo di questo drappo furono realizzati, circa venti anni dopo la morte del Papa senese, i due drappi gemelli, commissionati a distanza di sette anni l’uno dall’altro, da Fabio de’ Vecchi vescovo di Montalcino (1683) e da Paolo Pecci vescovo di Massa Marittima (1690).

 


Il de’ Vecchi, forse per i legami che univano la sua famiglia ai Chigi, fu tra i delegati del Capitolo della Cattedrale di Siena inviati a Roma per congratularsi con Alessandro VII all’indomani dell’avvenuta elezione. Di fatto nel 1664, tre anni prima che il Papa morisse, sarebbe stato elevato alla dignità vescovile e destinato alla sede di Montalcino: una sede non casuale per gratificare un sostenitore del partito chigiano. Nel territorio della diocesi di Montalcino infatti si sarebbe collocato il titolo e i possedimenti marchionali dei discendenti del Papa, beneficiati dal Granduca col titolo di marchesi di San Quirico. Montalcino era stata inoltre per un secolo e mezzo unita alla diocesi di Pienza e di fatto governata per tutto questo tempo da membri della famiglia Piccolomini. Era un segno importante per il nuovo corso anche politico che avrebbe segnato un deciso avanzamento dei de’ Vecchi nella politica anche e soprattutto cittadina.
Lo stesso vale per Paolo Pecci, anch’egli prelato canonico della Cattedrale senese e appartenente alla nobile consorteria che darà illustri nomi alla politica e alla cultura senese (Giovanni Antonio Pecci, pronipote di Paolo, nascerà un anno prima della morte di quest’ultimo). Una famiglia i Pecci che anche in ambito ecclesiastico aveva avuto illustri rappresentanti, basti pensare al cardinale Giovanni Pecci, titolare della sede vescovile grossetana agli inizi del XV secolo, che fu sepolto nel duomo di Siena sotto la lastra tombale scolpita in bronzo da Donatello. Un ramo della famiglia senese Pecci si era stabilito agli inizi del XVI secolo a Carpineto Romano, nel viterbese, ramo da cui nacque Vincenzo Gioacchino Pecci, eletto Papa Leone XIII dal 1878 al 1903. Paolo Pecci in verità fu nominato vescovo di Massa Marittima dodici anni dopo la morte del Papa Chigi, nel 1679, ma è evidente la sua “appartenenza” chigiana a partire da colui che gli avrebbe conferito il sacramento dell’episcopato. Il Pecci fu ordinato vescovo infatti dal cardinale Antonio Bichi, già vescovo di Montalcino e poi tra i massimi collaboratori e sostenitori di Alessandro VII che lo elevò al cardinalato.

Due drappi che non fanno quindi solo da corredo estetico a quello di Alessandro VII, ma testimoniano una stagione di equilibri politici, culturali e anche economici, delle potenti famiglie aristocratiche senesi, antiche e nuove, ormai orientatesi fra Siena e Roma, grazie anche ai forti legami col papato e all’ascesa alle massime cariche dello Stato Pontificio.
La storia affascinante e unica di Siena non finì certo con la caduta della Repubblica. Riuscì a riemergere in una maniera nuova e non meno originale di prima, anche se ormai priva della sua indipendenza politica che comunque fu solertemente rievocata nella tradizione del Palio, che proprio come la conosciamo oggi si stabilizza a partire dalla metà del ‘600 in onore dei festeggiamenti alla Madonna di Provenzano, che nella sua Collegiata continua ad essere scrigno inesauribile di spiritualità e di arte senese, ma anche fonte di antiche e sempre nuove speranze.

Katiuscia Vaselli