Bruno Giubbilei (Oca): “Girare la bandiera, il sogno più grande”

Bruno Giubbilei, contradaiolo dell’Oca, è stato alfiere di Piazza dal 1976 al 1981. Le sue alzate sfidavano il cielo.

Siena e i suoi colori, i suoi vessilli, la seta e la pelle, il fruscìo e il rullo. Siena di uomini che ricordano antichi guerrieri, vestiti di velluto e stoffe brillanti che fanno vibrare i cuori con i loro tamburi o sfidano il cielo con le loro bandiere. Nei racconti di Bruno Giubbilei, classe 1958, contradaiolo dell’Oca, sembra quasi di sentire il suono della seta che taglia il vento e se per un attimo si prova a chiudere gli occhi, si riesce quasi a veder volare i colori di Fontebranda, così in alto da far ingelosire la Torre del Mangia. Sì, perché Bruno, alfiere di Piazza dal ’76 al ’81, ci racconta di quelle amate figure, alfieri e tamburini, che ricevevano l’onore di rappresentare la contrada sull’anello di tufo e delle sue leggendarie alzate. Di lui, della sua figura slanciata e della sua voglia di fare un salto nel passato, si percepisce la genuinità, la devozione per la contrada che gli nasce spontanea dal cuore. Lui, in Fontebranda, c’è sempre stato.

Bruno Giubbilei, alfiere di Piazza, ma non solo…

“Sono stato alfiere dal ’76 all’ ’81 con il mio compagno Stefano Mazza, praticamente ho finito con il rinnovo dei costumi. Sono rientrato una volta nel 1985 e poi ho fatto l’economo dal 1988 al 2004. Ah, alfiere vittorioso nel ’77, con Rimini e Aceto! Adesso sto facendo questa nuova esperienza con gli Anatroccoli (il Gruppo Piccoli dell’Oca), mi occupo di quelli un po’ più grandicelli che vanno dai 13 ai 18 anni. Inizialmente ero un po’ dubbioso, mi sentivo un po’ un pesce fuor d’acqua per via delle generazioni così diverse e lontane, ma alla fine mi hanno convinto ed è un impegno che mi piace e diverte”.

La figura dell’alfiere o del tamburino di Piazza, una volta, era vista quasi con la stessa ammirazione che c’è nei confronti del Capitano. Come è stato per te? Si dice che le tue alzate fossero tra le più alte della storia…

“Io sono nato e cresciuto nella Galluzza e per me il sogno più grande era girare la bandiera, per il giro ero al settimo cielo! Da ragazzi andavamo al prato di San Domenico e si imitavano gli alfieri di piazza con delle fruste fatte con l’alloro… Da piccini ci bastava una mazza o una bandiera per essere contenti. Poi io e il Mazza abbiamo iniziato ad allenarci, tanto e per bene, s’era addirittura un po’ invidiati per le alzate altissime. In Piazza, era bellissimo sentire il boato della gente, alcuni mi dicono ancora ‘Maremma che alzate facevi!’ ed effettivamente, le nostre erano le più alte di tutti. Pensa che qualcuno ci diceva che le aste erano truccate! Invece noi andavamo a farle dal Pagni del Bruco, erano come tutte le altre. Una volta, andai a riscontrare una contrada che girava e dopo aver cantato il Te Deum feci la sbandierata con la loro bandiera. Uno mi disse ‘mai vista la bandiera della mi’ contrada alta così'”.

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Un piccola provocazione: si dice che un alfiere sia un tamburino fallito, è così?

“Assolutamente no! Almeno per me. Io sono sempre stato attirato dalla bandiera, il tamburo non sapevo suonarlo ma non mi è mai interessato… Il mio compagno, invece, suonava molto bene anche il tamburo”.

Che qualità deve avere un alfiere, secondo te?

“Capacità, tecnica e, sopratutto, deve allenarsi moltissimo. Anche se oggi sono cambiati i modi: noi facevamo tutto diverso, meno perfezione ma più di cuore, anche se ci allenavamo parecchio, praticamente tutti i giorni! Ci allenava Enrico Toti e mi ricordo che una volta ci mise a riposo perché da quanto avevamo provato, non ci riusciva più la sbandierata semplice”.

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Ormai, si parla con nostalgia di un Palio che non esiste più, ma anche la contrada ha subito cambiamenti radicali…

“Mi ritengo fortunato per aver visto e vissuto gli ultimi scampoli del rione di una volta. Prima ci si conosceva tutti, adesso non è più così… La contrada si è allargata molto. La famiglia di mia madre, i Brizzi, sono Fontebrandini da generazioni e ci siamo sempre stati: a me fa piacere andare nell’Oca e vedere che anche quelli più vecchi mi conoscono e mi vogliono bene, le guerre in contrada non mi sono mai piaciute e non le ho mai fatte. Comunque, sono tante le cose ad essere cambiate, anche il rapporto tra generazioni o l’arte del canto che da noi è sempre stata conosciuta e fondamentale… Adesso si è un po’ persa, viene meno naturale”.

Il Palio adesso è al centro di tante diatribe, a partire dagli avvisi di garanzia arrivati ai contradaioli. Credi che sia anche colpa nostra?

“In parte sì. Abbiamo voluto far conoscere Siena e il Palio, ma non abbiamo trovato il modo giusto. Noi i cazzotti si facevano, ma poi finiva lì: le rivalità sono sempre esistite ma adesso basta poco e partono le denunce. Il mondo del Palio è completamente stravolto”.

Alfiere, economo, anatroccoli… E Fedora.

“Sì, nel 2007 sono andato a prendere il cavallo ed ho portato Fedora, cavalla vittoriosa. Il capitano Rodolfo Montigiani mi chiese se gli davo una mano a vincere il Palio e inizialmente gli chiesi ‘che fo’, monto io?’, poi mi chiese di andare a prendere il cavallo e io… mi misi a piangere e gli saltai addosso, sono di lacrima facile, mi vengono i brividi anche adesso. Il 28 giugno di quell’anno morì Pasero e mi ricordo l’abbraccio con il capitano dopo la vittoria: gli dissi ‘questo Palio si dedica alle persone che non ci sono più. Qualcuno mi chiama addirittura Fedoro, anche se il mio soprannome è Rotella, me lo mise il Lusini, il barbiere dell’Oca, perché ero secco, secco con queste due ‘rotelle’ come ginocchia”.

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Inoltre, hai incontrato Papa Giovanni Paolo II da monturato. Che emozione è stata?

“La prima volta che si incontra un Papa è sempre un’emozione fortissima. Fare la sbandierata davanti a quello che poi è diventato un santo è stata un’esperienza bellissima”.

C’è un ocaiolo che ricordi con particolare affetto?

“Mi trovo in difficoltà perché citarne uno vorrebbe dire sminuire gli altri e di persone che mi hanno segnato ce ne sono moltissime, tanti punti di riferimento che mi hanno insegnato la contrada. Potrei dirti Foffo (Rodolfo Montigiani), perché da ragazzetto ci litigai di brutto… Anni dopo, però, mi chiese di giocare nella Trieste e ci si riabbracciò, volendoci ancora più bene di prima!”

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Tua moglie, Tiziana, è della Torre. Come si vive l’amore nella rivalità?

“Ci si pizzica spesso! Pensa che nel 2005, prima che vincessero il Palio, le dissi: ‘Ora voglio vedè come fate a sbagliare questo calcio di rigore’. Si prese il pallone, lei in porta e se riusciva a parare, la Torre avrebbe vinto il Palio! Oh, io tirai con tutta la forza, ma questa riuscì a parare… E mi mandò a quel paese!”

Che contradaiolo è Bruno Giubbilei?

“Un buon contradaiolo, sempre al servizio della contrada. Sono sanguigno, ci metto amore e passione come penso facciano tutti quelli che ci sono nati e cresciuti. A volte, forse… ho esagerato!”

Ultima domanda… Quante volte hai visto vincere il Palio?

“Una, due, tre… Dodici!”

Arianna Falchi