Aspettando Natale: A San Nicola mancavano le renne volanti

Aspettando Natale. Abbiamo scelto una sorta di calendario dell’Avvento e, per deformazione professionale, lo abbiamo scelto fatto di parole, di racconti. E’ il nostro modo di accompagnare i lettori di Siena News fino alle Festività. Troverete le firme di quanti durante l’anno apprezzate e seguite. Buona lettura!

sinterklaas_san_nicola

Siamo convinti che sia ancora lontano. Il calendario dice che manca ancora quasi un mese a Natale, ma invece il meccanismo è già in moto. No, non quello delle mediocri luminarie che intrefolano lo spazio sulle strade, e men che meno la macchina consumista che sta già suonando la grancassa dell’acquisto compulsivo. Non voglio nemmeno riferirmi al montante e ansiogeno dilemma del regalo da fare e dell’idea che, al riguardo, non viene in nessun modo: mi riferisco invece a quella sorta di avvento laico e folklorico che sta già cominciando a sgranare il count down verso i giorni di fine dicembre; verso la Grande Festa, come gli antropologi chiamano il grappolo di ricorrenze di fine anno. Tutte riassumibili sotto il semplificante concetto di Feste di Natale.
In realtà, infatti, il grande santorale pagano-cristiano dell’inverno ha già consumato il suo primo capitolo con la notte di Halloween, ultimo residuo di un antico capodanno celtico (Samhain), riscritto in forma carnevalesca (e ormai solo consumistica) nel mondo anglosassone d’oltreoceano, approdato da alcuni decenni anche da noi, ma nelle forme smandrippate e becere di una chiassata della quale si ignora qualsiasi originario contenuto culturale.

1544903

Il nome è una contrazione della locuzione All Hallows’ Eve, cioè “tempo di tutti gli spiriti sacri” e segna (come in altre culture: vedi ad esempio le feste romane per la dea Pomona) il momento “catastrofico” del passaggio dalla stagione calda, caratterizzata da frutti e raccolti, a quella invernale della natura in letargo. Occorreva propiziarsi, all’interno di un concetto di tempo ciclico (sopravvissuto in sottotraccia anche nella cultura del tempo lineare), il ritorno della buona stagione, della luce, del calore e soprattutto dei nuovi raccolti. Lo si faceva con la festa (elemento di frattura fra un tempo che è morto e un tempo che deve rinascere), convocando, al tempo stesso, il ricordo dei morti che dovevano svolgere il loro ruolo di “protezione” su i vivi in un momento “critico” dell’anno e (in quanto abitanti del “sottoterra”) invogliarli a proteggere anche i semi nei solchi e ad aiutarli a tornare a maturazione. La festa di Halloween, insomma, è una delle tante date calendariali nelle quali le porte fra terra e inferi si aprono per consentire la comunicazione fra le due condizioni umane della vita e della morte.

Il ciclo del “ritorno” di inizio inverno (della luce, del raccolto, dei defunti) è stato (ma, per alcuni antropologi, solo in apparenza) cristianizzato con la festa di Tutti i Santi e con la commemorazione dei morti (come si vede, ancora un richiamo alla vita per onorarli in cambio di protezione), ma questa superfetazione non ha cancellato l’aspetto originale che, paradossalmente, dimostra la sua vitalità proprio nella declinazione a-cristiana data a questa ricorrenza dalla cultura americana, a partire del XIX secolo.
La stagione calda che finisce, del resto, come è noto, viene in qualche modo “richiamata” solo pochi giorni dopo l’inizio del mese di novembre, quando un oggettivo ritorno di alcuni giorni più tiepidi e l’ultimo “raccolto” (quello delle castagne e della spremitura del vino) evocano l’estate legandola alla cultura agraria ed al suo contenuto folklorico, che nella cultura religiosa cristiana si collegano alla figura di San Martino e al suo gesto del dono di metà mantello al povero, simbolo, quest’ultimo, di una necessità di protezione degli indifesi, nei confronti del clima che sta volgendo al freddo.
Il ritorno della buona stagione, tuttavia, richiede una “spesa” (c’è sempre una precondizione del “dare” che sta a fronte della speranza di “ricevere”) e, perciò, si propizia con il dono, che, se vogliamo, con la sua caratteristica di volontaria privazione di qualche cosa offerta ad altri, è mimesi, in scala, del sacrificio, nel quale ci si privava di un bene importante come un capo di bestiame, ad esempio, il quale in una fase più “acculturata” sostituisce i sacrifici anche umani e antropofagici di antiche fasi della civiltà, prima che l’elaborazione cristiana del sacrificio simbolico e incruento segni la definitiva domesticazione di una primigenia ferocia (è tale anche quella nei confronti degli animali) della manifestazione del sacro.

E il dono sarà una delle costanti di tutte le feste invernali, come vedremo, perché di questo aspetto primordiale delle relazioni interpersonali, il Cristianesimo fa un elemento fondante delle ricorrenze che il suo calendario propone.

La prima è quella che incontriamo fra pochi giorni, il 6 dicembre, giorno in cui si commemora San Nicola. Il personaggio, di famiglia greca, nasce in Asia Minore, nell’attuale Turchia, intorno al 280 e diviene vescovo di Mira. Il fatto che i baresi ne abbiano trafugato le ossa nel 1087 facendolo diventare patrono della loro città; che i veneziani (battuti sul tempo nella loro analoga volontà di portare a casa loro le spoglie del santo) abbiano ricercato altre reliquie del vescovo trasportandole sulla laguna; la constatazione che, nel corso del pieno medioevo, San Nicola diventa uno dei santi più importanti dell’Occidente, sono cose che nulla tolgono al fatto che l’antenato di Santa Claus abbia avuto i suoi natali nelle terre del vicino Oriente.
La sua festa (ancora una volta, una celebrazione che si colloca sulla soglia temporale della frattura dell’inverno che comincia) diviene il primo esempio cristiano di “capodanno” del tempo ciclico, sottolineato, ancora una volta, dal dono. E, in particolare (attenzione: questo aspetto diventa caratterizzante per capire il Natale quale lo conosciamo noi e per seguire la trasformazione di un austero vescovo in un cicciottoso e rubicondo Babbo Natale che svolazza nel cielo su una slitta tirata da renne volanti), del dono ai bambini. Come è potuto succedere?

san_nicola_santa_claus
La vita di San Nicola presenta due momenti miracolosi caratterizzanti. Avendo saputo che tre giovani figlie di un pover’uomo della sua città, non potendo sposarsi per mancanza di dote, erano pronte a trasformarsi in prostitute, il santo, nottetempo, getta nella camera delle ragazze tre sacchetti d’oro (o, secondo altra iconografia, tre palle d’oro) che permetteranno alle sventurate di seguire la strada di oneste e fedeli spose. Se questo è un miracolo per modo di dire, ben più significativo è l’altro episodio della sua leggenda, che porta in scena i bambini. Nicola, infatti, capita in una locanda nella quale un oste antropofago ha ucciso tre giovanetti, li ha smembrati, messi sotto sale, ed ha utilizzato le loro carni per ammannire ì pasti agli avventori. Il santo scopre il misfatto e fa resuscitare i tre disgraziati ragazzini. L’episodio del dono alle fanciulle si coniuga, adesso, con quello della protezione nei confronti dei bambini e fa di San Nicola il dispensatore di doni e l’archetipo cristiano di Babbo Natale.
Ancora oggi, del resto, nel Nord (e anche in Italia settentrionale), i doni non vengono scambiati il 25 dicembre, ma il 6, un uso che probabilmente suona gradevole a quanti deplorano (giustamente) che le feste natalizie siano ormai prevalentemente un carrozzone consumistico, nel quale l’aspetto “regalo” svolge un ruolo economico di assoluto rilievo, che ha messo in ombra il significato sacrale della ricorrenza.

Duccio Balestracci