21 agosto 1968: l’inizio

21 agosto 1968: Castelletti di Signa. E’ qui che tutto ha inizio. In una notte di novilunio di 48 anni fa: il primo delitto che traccia la lunga scia di sangue

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Barbara Locci e Antonio Lo Bianco

Non si sa mai davvero dove ci può portare un viaggio. A volte si parte una domenica pomeriggio, che sia d’inverno o di un’estate calda come solo a Firenze sa essere. Un 7 agosto che ti si appiccica addosso e non te lo togli nemmeno con la doccia perché l’umidità delle strade che percorri non rimane sulla pelle ma va sotto. E allora il pensiero e le sensazioni non te le levi di dosso perché sai che l’idea che ti sei fatto insieme a chi, con te e come te condivide un’idea e un lavoro che forse è troppo pensarlo come una risposta, diventa una domanda ancora più grande. Come se qualcuno, tanti, ti chiedessero di averla invece quella risposta, di trovarla. E non sai davvero dove ti può portare il viaggio perché pensi di essere troppo ‘piccolo’ per entrare dentro argomenti che hanno fatto la storia della cronaca nera italiana degli ultimi cinquant’anni e che hanno ampiamente superato i confini d’oltreoceano. Non sai dove ti porta quel viaggio, tra paure – non lo neghiamo – e anche risate perché per arrivare a questo bisogna essere una squadra affiatata e saper ridere anche quando si presentano situazioni ‘poco simpatiche’ per definirle con un eufemismo. Si deve essere un po’ matti per affrontare un viaggio come questo, lungo la storia più nera e l’inverno e l’estate, per strade buie e temporali, nebbia o sole cocente di mezz’agosto. Abbiamo trovato molte ombre, soprattutto dell’anima. Energie e luoghi deserti solo all’apparenza. Quello che stiamo per presentare ai nostri lettori, iniziato con l’intervista a Mario Spezi (che potete rileggere qui) è la nostra idea. Non siamo inquirenti ma abbiamo cercato e fatto molte domande. Abbiamo trovato risposte, spesso, nella reticenza, nella memoria, nella battute toscanacce inconfondibili che ancora nascondono fantasmi. Inquietanti certe frasi che abbiamo sentito ma più di tutte una ci ha fatto andare avanti: ‘Il caso è stato riaperto’. Solo i lettori potranno trarre conclusioni, noi vi diamo gli strumenti per riflettere e la cronaca di un viaggio. Di quasi mezzo secolo fa ma che ancora non ha risposta.

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Piazza Cavour, con il cinema michelacci – Signa

La sera del 21 agosto 1968 il Giardino Michelacci di Signa trasmette “Nuda per un pugno d’eroi”, un film di Yasuzo Masumura. Intorno alla mezzanotte, finita la proiezione, un uomo, una donna ed un bambino escono dal cinema e salgono su una Giulietta bianca. Da Piazza Cavour imboccano probabilmente Viale Mazzini per immettersi in Via degli Alberti. Sono ormai arrivati nei pressi della Villa di Castelletti quando, all’altezza del Ponte sul Vingone, l’auto gira a destra e si inoltra, per un centinaio di metri, in una stradina che corre lungo l’argine del torrente. Ormai la mezzanotte è passata, il bambino, ricoverato sul sedile posteriore, sta dormendo e l’uomo e la donna iniziano a scambiarsi effusioni, ultimi gesti d’amore prima che una Beretta Calibro 22 Long Rifle esploda contro i due amanti otto colpi di proiettili marca Winchester con lettera H impressa nel fondello. La coppia muore sul colpo, il bambino si sveglia di scatto e sarà lui, alle due del mattino, a dare l’allarme suonando il campanello di casa De Felice, in Via del Vingone, a circa tre chilometri di distanza dal luogo dell’omicidio: “Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina».

 

Via Vingone. Casa del De Felice. Qui bussò Natalino Mele la notte del 21 agosto 1968 per chiedere aiuto

Via Vingone. Casa del De Felice. Qui bussò Natalino Mele la notte del 21 agosto 1968 per chiedere aiuto

Ma chi è quel bambino e chi sono “la mamma e lo zio” e il “babbo ammalato”, ma soprattutto chi si nasconde dietro quella Calibro 22? Facciamo a questo punto un salto indietro nel tempo.

E’ il 1959 quando Barbara Locci “la mamma” conosce e sposa Stefano Mele “il babbo ammalato”, di diciotto anni più grande di lei. Entrambi originari della provincia di Cagliari, avevano seguito quel flusso migratorio che dall’isola aveva portato in Toscana intere famiglie di sardi. Inizialmente la coppia vive a Prato presso la casa dei genitori di Stefano Mele. Poco tempo dopo nasce Natalino “il bambino”, ma a causa della vita troppo “vivace” della donna, il padre del Mele, per evitare disonore alla famiglia, decide di allontanare figlio, nipote e nuora dalla propria casa. Stefano, Barbara e Natalino si trasferiscono a Lastra a Signa. L’esuberanza di Barbara Locci però non si attenua, tanto che continua a frequentare assiduamente Prato ed il famoso cosiddetto “Bar dei sardi” in Piazza Mercatale, un locale in cui non era difficile incontrare personaggi come Giovanni Farina e Mario Sale, tristemente noti per le vicende legate all’Anonima Sequestri e da alcuni membri di un’altra famiglia emigrata a fine anni cinquanta dalla Sardegna in Toscana, i Vinci.

l'abitazione di Stefano Mele e Barbara Locci - Lastra a Signa

l’abitazione di Stefano Mele e Barbara Locci – Lastra a Signa

E’ proprio qui che Barbara, subito dopo il matrimonio, incontra Giovanni Vinci, primo di tre fratelli e primo a diventare amante ufficiale della donna. Di lì a poco Barbara conoscerà Salvatore, il secondo fratello Vinci e secondo amante della Locci. Salvatore non solo frequenta pubblicamente Barbara, ma durante un ricovero in ospedale del marito Stefano Mele, si trasferisce direttamente a casa della donna. Inizia una convivenza a tre fino all’ingresso sulla scena del terzo fratello Vinci, Francesco, che della donna si innamorerà follemente instaurando con lei una storia d’amore morbosa e passionale.
Ma l’ape regina, così ormai viene chiamata Barbara Locci, non si accontenta della presenza fissa di Francesco Vinci ne tanto meno del marito che, non solo non si ribella a quello stile di vita così dissoluto, ma in alcuni casi lo facilita; nel 1968 la donna incontra il siciliano Antonio Lo Bianco “lo zio”. I due cominciano una frequentazione fino alla sera del 21 agosto, fino a quell’ultimo spettacolo al cinema Giardino Michelacci di Signa, fino a quegli otto colpi sparati contro di loro da una mano assassina che risparmia il povero Natalino sdraiato nel seggiolino posteriore dell’auto.

 

probabile percorso fatto da Natalino Mele dopo il duplice delitto

probabile percorso fatto da Natalino Mele dopo il duplice delitto

E’ la mattina del 22 agosto 1968 quando i carabinieri di Signa bussano alla porta di Stefano Mele. Il tradimento è il movente che indirizza le forze dell’ordine a casa del marito di Barbara Locci. Nel frattempo Natalino sta raccontando la sua verità agli inquirenti: gli spari l’avevano svegliato, aveva accarezzato la mano della mamma, aveva capito che era morta, era fuggito dal finestrino posteriore ed aveva raggiunto a corsa e senza scarpe la casa del De Felice. Senza scarpe, ma come riferiranno alcuni testimoni, con i calzini giallo chiaro perfettamente puliti. Chi aveva in realtà accompagnato il bambino in Via del Vingone dopo l’omicidio? Natalino nelle sue deposizioni cambierà diverse volte versione. Se inizialmente sarebbe fuggito a corsa dalla macchina guidato da quella piccola luce proveniente dalla casa del De Felice, con il tempo risulterebbe essere stato accompagnato a cavalluccio dal padre stesso, canticchiando La Tramontana, un pezzo musicale molto in voga quell’estate, e che sarebbe stato lo stesso Stefano Mele a suonare il campanello suggerendo a Natalino cosa dire alle persone che lo avessero interrogato sulla vicenda. Interrogato nuovamente dirà che a sparare sarebbe stato lo zio Pietro alla presenza del padre e che tra le canne avrebbe intravisto Salvatore, dopo l’omicidio il babbo lo avrebbe accompagnato alla casa del De Felice. Fatto sta che il piccolo Natalino anche oggi, in una Firenze che di lui si è completamente dimenticata, e che si impegna per la “lotta per la casa” insieme ad un gruppo di senza fissa dimora, continua a non ricordare nulla, neppure di tutte quelle persone che invece a più riprese verranno, a torto o ragione, posizionate sulla scena del crimine: lo stesso Stefano Mele, Salvatore Vinci, Francesco Vinci, Carmelo Cutrona (altro amante della Locci) e infine Giovanni Mele (fratello di Stefano) e Piero Mucciarini (marito della sorella di Stefano). Tanti nomi che anche lo stesso Stefano Mele a più riprese pronuncerà di fronte agli inquirenti, ma che non lo salveranno dall’accusa ufficiale di essere stato il materiale esecutore del duplice omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco quella notte del 21 agosto 1968. Molti dubbi sulla vicenda furono accantonati, d’altra parte di fronte ad un reo confesso che spiega dettagli in alcuni casi lacunosi, ma per la maggior parte accuratamente descritti, sia in Assise che nei due processi di Appello Stefano Mele non poteva che essere giudicato unico colpevole e quindi condannato, in via definitiva, a 14 anni di reclusione con le attenuanti.

D’altra parte è comprensibile accettare una confessione, ma non è accettabile non considerare i primi momenti di ricostruzione della vicenda. Stefano Mele non riuscì a portare gli investigatori sul luogo del delitto tanto che al termine di estenuanti giri in auto furono gli stessi inquirenti a desistere e a condurlo in via di Castelletti. Arrivati sul luogo chiesero al Mele di mimare nuovamente, pistola alla mano, l’azione violenta che aveva portato alla morte dei due amanti e l’accusato puntò la pistola verso i finestrini posteriori di una Giulietta, condotta lì appositamente per effettuare la ricostruzione della dinamica dell’omicidio, smentendo l’analisi della perizia che invece avrebbe confermato la provenienza degli spari dallo sportello anteriore. Piero Mucciarini non aveva alibi solido, Salvatore Vinci aveva a suo favore solamente confusi ricordi di un suo dipendente e del suo servo-amante, ma per certi versi i dubbi più evidenti cominciarono a sorgere agli inquirenti prima ed ai giudici dopo, quando al Mele veniva chiesto dell’arma e di dove l’avesse riposta. Il Mele nell’immediato non sa cosa rispondere e inizia una sorta di ritrattazione che lo porterà a dichiarare che la pistola non era sua, ma di Salvatore Vinci; era stata di Salvatore l’idea di farla finita con quella donna che aveva recato sofferenze sia alla famiglia Mele che alla famiglia Vinci. Dopo aver ucciso la coppia di amanti, la pistola sarebbe stata lanciata in un fosso ai bordi del torrente. In realtà quella Beretta Calibro 22 non verrà mai trovata e le accuse mosse verso Salvatore Vinci cadranno quando, in un confronto diretto, il Mele si inginocchierà ai piedi dell’amico chiedendogli perdono per averlo chiamato in causa, ma soprattutto quando gli alibi forniti dal Vinci sul dove si trovasse la sera dell’omicidio verranno considerati attendibili sulla base delle testimonianze e non su reali ricerche investigative. Il Vinci dirà, con il sostegno di due testimoni, che si trovava a giocare a biliardo in un bar. Molti anni dopo si scoprirà che quel bar, quel giorno, era probabilmente chiuso per turno di riposo e che, comunque, uno dei testimoni non ricordava la serata in questione e l’altro, con sua ammissione, che aveva raccontato ciò che Salvatore Vinci aveva suggerito lui di raccontare. Sapete chi è questo secondo testimone? Il servo pastore, amante di Salvatore Vinci, Silvano Vargiu che guarda caso abitava all’epoca dei fatti nella palazzina a fianco di quella del De Felice che soccorse Natalino Mele la notte del 22 agosto 1968.

A questo punto della vicenda, con Salvatore Vinci di nuovo a casa, entra in scena il fratello minore, Francesco; il Mele cambia nuovamente versione; è lui ad averlo accompagnato in Via di Castelletti, aver ucciso in concorso la Locci e il Lo Bianco e di aver nascosto la pistola nel porta oggetti di una lambretta. Questa volta però dirà di non aver personalmente sparato, ma di aver assistito mentre Francesco uccideva i due ragazzi. In realtà verrà verificato che la Lambretta di Francesco era in riparazione e che una Calibro 22 non sarebbe mai potuta entrare nel suo porta oggetti. E allora perché Stefano Mele arriva ad accusare Francesco Vinci? E perché avrebbe ritrattato la prima accusa a Salvatore? E cosa significa quel biglietto, trovato molti anni più tardi, nel 1984, nel portafogli dello stesso Mele durante una visita del giudice istruttore Rotella che stava ancora indagando, anche, sull’omicidio del 1968? “RIFERIMENTO DI NATALE riguaRDO LO ZIO PIETO. Che avesti FATO il nome doppo SCONTATA LA PENA. COME RisulTA DA ESAME Ballistico dei colpi sparati.” Un biglietto stropicciato scritto in stampatello e poi l’ennesima confessione e cambio di versione: Stefano Mele dirà a Rotella “Mio fratello e mio cognato nel 1968 parteciparono all’ assassinio di mia moglie Barbara e del suo amante, Antonio Lo Bianco”. Ecco che Giovanni Mele e Piero Mucciarini entrano nell’inchiesta e finiranno, così come era già successo a Francesco Vinci, in galera.

Ma non corriamo troppo e torniamo agli anni settanta. Ci chiedevamo appunto perché accusare i fratelli Vinci? Perchè continuare a chiamare in causa Francesco, assolvendo sempre Salvatore? Ad un certo punto è lo stesso Mele ad ammettere di aver provato paura alla vista di Salvatore; lui era l’amante della moglie negli anni in cui era nato Natalino (forse Natalino era figlio di Salvatore?) e poi, le deviazioni sessuali del Vinci avevano portato il Mele ad avere rapporti sessuali e omosessuali sempre organizzati dall’amico e, per gli anni in questione, e per la cultura sarda, questo poteva rappresentare un più che valido motivo di ricatto di fronte alle sue iniziali accuse. Francesco e Salvatore, inoltre, pur essendo fratelli, perdono tra di loro qualsiasi forma di rispetto familiare dopo che il giovane Vinci porta via l’oggetto sessuale e di stabilità emotiva a Salvatore, appunto Barbara Locci. Salvatore Vinci, qualora il fratello Francesco fosse stato accusato, l’avrebbe visto in carcere insieme al Mele e avrebbe per di più sistemato una vicenda economica correlata, ma di cui non parleremo in questo caso, che pendeva tra lo stesso e i Mele. E la pistola? Ad oggi sappiamo che ha ucciso almeno altre 14 persone, ma nessuno è stato in grado di trovarla. La stessa pistola che uccide in otto occasioni differenti e che non è pensabile sia passata di mano, infatti, non solo la pistola è la stessa, ma gli stessi sono anche i proiettili, provenienti da due lotti differenti: ramati o a piombo nudo. Durante gli anni ottanta, le indagini degli investigatori portarono a Villacidro, paese originario dei Vinci. In quell’occasione saltò agli occhi degli inquirenti il nome di Franco Aresti, un lontano parente della famiglia Vinci morto molti anni prima in Olanda. Secondo le fonti, Aresti avrebbe denunciato regolarmente l’acquisto di una Beretta Calibro 22 pochissimo tempo prima che Salvatore Vinci emigrasse a Firenze. La pistola dell’Aresti non è masi stata trovata né a Villacidro né in Olanda.

via di Castelletti - luogo del delitto

via di Castelletti – luogo del delitto

Torniamo a questo punto al 1973, Stefano Mele sconta la sua pena in carcere, Natalino continua ad avere ricordi confusi, i fratelli Vinci si radicano sempre di più sul territorio, ma perdono qualsiasi forma di unità familiare. Prima di arrivare al 1974 decidiamo però di tornare indietro, ancora una volta. Andiamo in Sardegna, andiamo anche noi a Villacidro. Lo faremo nel prossimo articolo, per il momento ci preme sottolineare come, sempre con il condizionale, se il delitto del 1968 di Castelletti di Signa, fatto passare solamente come un delitto passionale, fosse stato seguito immediatamente con più attenzione e con voglia di verità, se la ricerca dell’arma fosse continuata fin da subito senza cedere di fronte alla reticenza dei sardi, se questo episodio avesse visto in carcere non solo il povero Stefano Mele, probabilmente altre 14 vite sarebbero state salvate. Probabilmente “Il Mostro di Firenze” non sarebbe mai esistito.

Andrea Ceccherini

Katiuscia Vaselli

(ha collaborato Monica Perozzi)

 

* Il racconto è frutto di ricerca e di colloqui con persone di cui non crediamo giusto rivelare l’identità, che ci hanno fornito, con un ancora vivo imbarazzo, elementi emozionali più che di verità storica. Siamo convinti che i luoghi parlino e che ancora abbiano molto da dire ed è per questo che non ci avventureremo in campi di non nostra competenza, ma cercheremo di far rivivere questa vicenda partendo proprio da chi l’ha già con serietà studiata e facendovi fare ciò che noi abbiamo già fatto: un viaggio nel tempo attraverso città, paesi, colline, strade di campagna, testimoni del più grande caso di cronaca nera italiana. Qualora notaste errori o imperfezioni o vi sentiste in qualsiasi modo in dovere di intervenire, noi siamo qua, pronti a darvi voce.

Le nostre fonti bibliografiche:

Storia delle merende infami, Nino Filastò
Dolci Colline di Sangue, Mario Spezi, Douglas Preston
Mostro di Firenze – Al di là di ogni ragionevole dubbio, Paolo Cochi, Michele Bruno, Francesco Cappelletti