Resistenza agli antimicrobici: una sfida per la medicina del futuro

Elena Gianchecchi, scientist di VisMederi, spiega cosa sia la resistenza agli antimicrobici, quali gli antibiotici e i farmaci chemioterapici

Elena Gianchecchi

E’ considerata una delle principali battaglie che in futuro dovrà affrontare la medicina. La resistenza ad antibiotici e farmaci chemioterapici, infatti, sta preoccupando tutta  la comunità scientifica. Nel caso queste medicine diventino inefficaci, ne risentirebbe l’intera popolazione umana.

Elena Gianchecchi, scientist di VisMederi, racconta a Siena News le criticità e le possibili soluzioni riguardanti questo problema.

Che cos’è la resistenza agli antimicrobici?
«La resistenza agli antimicrobici consiste nella capacità da parte di microorganismi di alcune specie di sopravvivere e anche moltiplicarsi nonostante la presenza di antimicrobici, quali antibiotici e chemioterapici.

La resistenza antimicrobica è dovuta all’utilizzo su larga scala degli antimicrobici, sia per il trattamento e la prevenzione delle infezioni, che per l’aumento della produzione dei raccolti o per impedire che i prodotti agricoli si deteriorino. Inoltre vengono utilizzati negli allevamenti di animali che entrano nella catena alimentare dell’uomo.

Si possono sviluppare, perciò, alcuni batteri caratterizzati da resistenza multipla verso più antibiotici. Questi possono poi trasmettersi all’uomo attraverso contatto diretto o per mezzo dell’ambiente.

In clinica la resistenza agli antibiotici è stata identificata negli anni ’50. E’ un fenomeno che è incrementato negli ultimi dieci anni e costituisce un problema globale per la salute pubblica, con gravi conseguenze a livello economico.

Poiché i microrganismi riescono a resistere ai trattamenti farmacologici, le terapie adottate in certi casi risultano inefficaci. Questo, in futuro, potrebbe comportare un incremento dell’incidenza di patologie debilitanti e letali, tantoché l’Onu stessa l’ha definita come la sfida più grande della medicina contemporanea. Vi sono dei batteri come pseudomonas, klebsiella ma anche pneumococchi, stafilococchi e enterococchi che sono divenuti resistenti anche ai più moderni antimicrobici».

Perché i batteri diventano resistenti?
«I batteri diventano resistenti perché possono adattarsi rapidamente ed efficacemente ai cambiamenti ambientali e questa caratteristica è alla base del processo evolutivo. Ciò è dovuto all’elevato numero di batteri presenti in piccoli volumi e alla loro elevata capacità di moltiplicazione. I batteri diventano resistenti agli antibiotici in quanto, più questi ultimi sono aggressivi e il loro uso è persistente, maggiore è la pressione selettiva sulla comunità microbica, promuovendo più soluzioni adattative e in tempi rapidi».

Come i batteri diventano resistenti?
«Essi diventano resistenti in vari modi: attraverso mutazioni genetiche spontanee, acquisendo geni di resistenza da una cellula batterica vicina, ereditandoli o rafforzando un carattere genetico preesistente. Anche i virus possono intervenire nel trasferimento di un gene di resistenza da un batterio all’altro».

Com’è la situazione in Italia?
«Tra i paesi europei l’Italia è uno dei paesi più interessati dal problema dell’antibiotico resistenza essendo uno degli stati con il più alto consumo di antibiotici e con oltre 5000 morti all’anno».

Quali possono essere le strategie adottabili dall’uomo per contrastare il fenomeno?
«La dimostrata capacità dei batteri di poter adattarsi e divenire resistenti anche verso molti composti sintetici fa ipotizzare la possibilità di sviluppare resistenza anche verso futuri trattamenti antimicrobici. Quindi la resistenza agli antibiotici non potrà essere risolta con un singolo nuovo farmaco o terapia, ma richiede un approccio multiplo.

Al momento la vaccinazione, laddove disponibile, rappresenta la strategia più efficace per ridurre l’incidenza dei casi di infezione e quindi la necessità di utilizzare antibiotici, affiancata allo sviluppo di nuovi vaccini per infezioni.

A ciò va affiancata un’intensa attività di sensibilizzazione per promuovere un uso corretto degli antibiotici da parte della popolazione e una gestione responsabile delle prescrizioni sanitarie, quindi utilizzare l’antibiotico solo se il patogeno è sensibile a esso, alla più bassa dose e per il minimo tempo possibile per raggiungere l’effetto clinico desiderato».