Tra l’Amiata e il Brunello: Sant’Antimo. L’Abbazia è in pericolo?

La penna del professor Mario Ascheri traccia il profilo di un gioiello artistico e religioso incastonato in uno degli angoli più suggestivi del mondo, al confine tra l’Amiata e la Valdorcia, affacciato sulle preziose vigne di Brunello. Un quadro unico e irripetibile, che rischia un serio pericolo…

Come ricordare Sant’Antimo nel momento in cui la comunità religiosa che ha ridato vita al grande complesso dai tempi di Mario Jsmaele Castellano, indimenticabile arcivescovo di Siena (e mio comprovinciale del Ponente Ligure), programma una partenza improvvisa e l’abbazia corre il serio rischio di ritornare un puro, grande, ma freddo monumento abbandonato o affidato a religiosi con difficoltà ad inserirsi nel ‘contesto’? C’è da sperare che il Vaticano voglia interessarsi della delicata questione.

Ma intanto ringraziamo i monaci che con il loro duro lavoro in oltre trent’anni hanno ridato lustro a un sito che usciva da un lungo degrado. Si pensi che ancora nel 1870, quando l’abbazia passò sotto l’amministrazione delle belle arti, era una fattoria mezzadrile e la cripta era usata come cantina!

Carlo Magno non fondò l’abbazia, come si dice spesso, ma essa era tanto affermata  nell’814 da ricevere larghe donazioni su un’area così ampia da comprendere persino Castiglion della Pescaia, importante non solo per il pesce ma anche per il traffico dei minerali di ferro dall’Elba, e l’abate ebbe il diritto di portare il prestigiosissimo titolo di conte palatino – cioè di ‘grande’ del Sacro Romano Impero.

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Il culto precoce con san Donato di Sant’Antimo martire (primo nelle litanie tributate) ad Arezzo, centro eminente  in quest’area grazie alla usatissima Cassia (prima che svettasse la Francigena) e una testimonianza del 715, in piena età longobarda, non lasciano dubbi sull’esistenza di Sant’Antimo, anche anteriore quindi al monastero di San Salvatore dell’Amiata, centro religioso di pertinenza della corona longobarda in un’area da tenere sott’occhio in funzione antibizantina.

La dimensione monastica fu essenziale non solo per preservare oasi di cultura entro il generale naufragio delle strutture pubbliche e della stessa cultura laica ma anche perché il mondo vescovile era ormai travolto dagli affari temporali, fino a ritenere normale la guerra, il concubinato o il matrimonio stesso e persino l’acquisto delle cariche: quelle che noi chiamiamo oggi ‘nomine’ negli enti che contano. Le abbazie al contrario erano centri di fede, cultura, conforto e speranza, ma quando potenti come Sant’Antimo erano oggetto di tante donazioni ma anche delle brame di famiglie rapaci.

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Nel 1004 ad esempio, una certa contessa Giustizia donava all’abate vasti possedimenti nel Pistoiese, nel Pisano e nelle vicinanze della stessa abbazia, con case, servi e ancelle, granai, corsi d’acqua, mulini, boschi, prati, pascoli e bestiame, ma due anni dopo lo stesso imperatore Enrico II doveva esaminare il problema di chiese contestate dal vescovo di Chiusi. Non meraviglia allora che l’abbazia sia stata destinataria di una donazione (forse degli Ardengheschi conti di Siena) nel 1118 così importante da meritare che se ne ricordassero gli estremi con le iscrizioni (oggi frammentarie) che si leggono nella colonna dalla parte del Vangelo e nell’altare.

Il collegamento con Siena torna nel 1163, quando l’arcicancelliere imperiale ordina al conte di Siena Guglielmo di garantire ai monaci il possesso di Castiglion della Pescaia contro le turbative dei nobili di Buriano. Pochi anni dopo, nel 1191, un manoscritto di Bamberg ci dice di un processo qui concluso nel chiostro, da un giudice milanese consigliato dal vescovo di Novara.

Tutto ciò per dire del ‘giro’ internazionale in cui era quasi ‘naturalmente’ inserita l’abbazia, e che ci è confermato dalle peculiarità architettoniche della grande chiesa, che risente fortemente di stilemi francesi oltreché lombardi.

Il monastero ancora nel 1100, quindi, vicino alla via Francigena e al mare com’era, era probabilmente punto di arrivo di monaci di vari Paesi che portavano la loro cultura specifica, architettonica e non solo. Impressionante la questione della Bibbia oggi al museo di Montalcino. Gli storici dell’arte non riescono ad accordarsi: c’è del gusto francese, secondo altri del bizantino e in certe immagini cultura inglese, senza tener conto che probabilmente fu ospitato un rabbino per iniziare all’ebraico lo scriptor, visto che ci sono anche parole in tale lingua.

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Ma i tempi duri sarebbero venuti presto. I vivaci Comuni di Montalcino e di Siena furono motivo della crisi duecentesca, favorita dal declino dell’Impero in Italia. Il monachesimo impegnato nella riforma papale, dai cistercensi (insediati a San Salvatore e a San Galgano) ai camaldolesi e vallombrosani, occupò ovunque le posizioni chiave. Nel 1220 Sant’Antimo poté ancora comprare il castello di Montenero, ma in genere dai primi anni del Duecento fu un gran vendere a favore di questo o quello. I Tolomei compaiono qui in forze a metà Duecento, e alla fine del secolo si divisero con l’abbazia i diritti di signoria su Castelnuovo dell’Abate.

A metà Trecento ci fu un abate espresso dalla famiglia Tolomei, e Sant’Antimo fu anche un luogo di Caterina (l’abate Giovanni di Gano le somministrò l’estrema unzione), che da lì lanciò una verità sempre valida: “che i cattivi sono uditi e i buoni spregiati”.

Ma in un processo del 1421 relativo a diritti sulle terre contro la comunità di Castelnuovo dell’Abate si ricorse persino a una falsificazione per sostenere i propri diritti e pochi anni dopo l’abate Paolo fu accusato di ‘incesto’  con la suora badessa del monastero femminile di San Pietro a Monticelli, fuori della Porta di San Frediano a Firenze, sul quale l’Abbazia di Sant’Antimo esercitava la propria giurisdizione sin dal secolo XI. Più di 10 anni dopo (niente prescrizione allegra allora!), l’abate fu incarcerato, torturato e infine destituito per ordine di papa Eugenio IV, dando ascolto al vescovo di Firenze che lo accoglieva. I parrocchiani erano furibondi per le malversazioni dell’abbazia e nel 1444 l’abate (senese) fu costretto a riconoscere i privilegi dello Spedale di Santa Croce dipendente dal Comune di Montalcino.

Una frana annunciata. Era tempo di chiudere.

Pio II soppresse l’abbazia, facendole succedere il nuovo vescovado di Montalcino-Pienza che ereditò anche i titoli dell’abate. Fu un Cinughi senese a godersi la nuova situazione che affossava l’austera, antichissima istituzione.

Ma ora che facciamo? La vita comunitaria nell’umiltà e nella testimonianza della fede che ha ridato vita a Sant’Antimo, meta oggi di un importante turismo in una zona prosperosissima per il prestigioso Brunello, deve venire meno dopo tanta storia illustre?

Mario Ascheri