Dario Venturini: una storia ancora sconosciuta

Siamo in un anno imprecisato dei primi del Novecento, probabilmente a cavallo tra il primo ed il secondo decennio. E ci troviamo in Argentina, dove i genitori di Dario, nato laggiù nel 1907, sono emigrati ormai da qualche anno. In famiglia, diversi anni più tardi, comparirà anche un secondo figlio che quindi in questo episodio che sto per raccontarvi, non compare. Provengono da un piccolo paese collocato quasi esattamente tra Liguria e Toscana, Montedivalli di Podenzana. 

In Argentina il padre fa il cuoco e la madre la lavandaia. Un giorno mentre Dario sta tornando da scuola, il piccolo viene attaccato da un bufalo ed incornato. Lo incorna e con la testa lo schiaccia sulla staccionata che delimita un recinto. Il piccolo Dario urla, piange ma, per un tempo indefinito, nessuno lo sente. Finalmente quando qualcuno arriva e lo libera da quella scomoda situazione, uccidendo il bufalo infuriato, il bambino è ancora vivo ma ha subìto lesioni notevoli alla testa, ha perso molto sangue, occorre assisterlo, forse (non ci sono notizie al proposito) ricoverarlo in ospedale. 

Ospedalizzato o no, Dario piano piano migliora e guarisce. Certo che quella brutta esperienza gli rimarrà addosso e forse influenzerà la decisione dei suoi genitori di tornare in Italia. Ma il “ricordino” più importante che gli rimane per sempre è un’epilessia derivante dal trauma cerebrale che lo tormenterà per tutta la vita e che contribuirà a forgiare il suo carattere schivo, dai tratti malinconici. 

Tutto questo mi è stato raccontato da una parente di Dario Venturini di Montedivalli di Podenzana che mi ha contattato qualche tempo fa per raccontarmi i particolari di una storia che nessuno conosceva. Neppure i medici del San Niccolò che lo ricoverano nel 1924 e che si limitano a riportare una anamnesi stringata e che in sostanza ignora del tutto l’evento forse più importante della vita del povero Dario. Una vita che si è indirizzata male fin dal suo inizio e che proseguirà anche successivamente facendo lo slalom tra disgrazie e tragedie. I medici fin dall’inizio descrivono il carattere di Dario come scontroso, vischioso, attacca brighe, sulla falsariga di quello che i manuali riportavano per gli epilettici di lunga data. Pur entrando giovanissimo al San Niccolò il paziente (aveva 17 anni) nel corso dei ricoveri che si sono susseguiti non ha mai avuto la fortuna di fare un incontro felice con qualcuno che se lo sia preso “veramente” a cuore, anzi è rapidamente (per non dire immediatamente) diventato la patata bollente che nessuno vuol tenere in mano. 

 

Se l’altra volta vi ho raccontato il seguito di una delle storie tratte dal “Villaggio delle anime perse” oggi invece vi presento una sorta di “prequel” della storia di Dario Venturini. Una premessa, come ho già detto, di non poco conto e che ha probabilmente influenzato l’intera esistenza di Dario, l’averla colpevolmente ignorata inoltre ha condizionato forse anche l’intera parabola terapeutica.  A beneficio dei lettori sintetizzo al massimo quello che, quando scrissi, era noto ed emergeva dalla cartella clinica. Dario viene ricoverato la prima volta a Maggiano di Lucca, ma dopo circa un mese ne viene richiesto il trasferimento al San Niccolò. Questa richiesta di trasferimento non meglio specificata e forse avvertita come un’imposizione dal manicomio di Siena inquina subito la collaborazione tra i due istituti. Tanto che si comincia a discutere anche su chi deve materialmente effettuare il trasferimento da Lucca a Siena. Una volta trasferito soggiorna spesso al Conolly dove sul davanzale di travertino della cella dove è stato spesso recluso, scrive la sua firma. In cartella viene definito analfabeta ed allora si era creato il piccolo mistero di chi poteva averlo aiutato. Le nuove notizie smentiscono questo fatto, anzi viene ricordato come uno dotato di buona calligrafia, quale in effetti è quella della firma. Dopo circa tre anni di ricovero giungono pressioni da casa perché sia dimesso e torni ad aiutare il padre nei lavori di campagna. Così avviene ma appena pochi giorni dopo il suo ritorno a casa, dove adesso c’è anche il fratello minore, capita una lite, una rissa dove spunta fuori un coltello ed in quell’occasione è il padre di Dario ad avere la peggio ed a morire. 

Viene incolpato del parricidio Dario che si difende proclamandosi innocente, ma i precedenti aggressivi e quel suo carattere ne fanno subito l’imputato ideale. Viene processato e dichiarato colpevole ma incapace di intendere e di volere e dunque spedito in manicomio criminale a Monte Lupo Fiorentino. Di lì, siamo ormai agli inizi del 1930, si perdono le sue tracce ed anche i parenti che mi hanno contattato non sanno precisare dove e quando la travagliata vita di Dario sia terminata. 

Il racconto che i parenti mi hanno fatto su quelle vicende e sull’ambiente familiare è stato molto lungo, pieno di particolari strani, a volte quasi incredibili, ma mi hanno anche pregato di non divulgarne alcuni e a questa volontà mi attengo. 

Una parte della famiglia infatti non ha piacere di essere nominata e messa in relazione alla memoria di Dario, la cui vicenda drammatica è stata sottoposta ad una sorta di damnatio memoriae, ancora oggi vigente.  Anche tutta la circostanza della morte del padre, inserita in un ambiente aspro ed un po’ rude come il paesaggio dei luoghi dove si svolse, forse non fu approfondita a sufficienza.  La sola presenza di Dario, con i suoi precedenti ed uscito da pochi giorni da un manicomio, fece di lui il colpevole più plausibile e forse ha indirizzato le indagini un po’ a senso unico. Dario durante il processo ha sempre dichiarato di essersi solo difeso e la parente con cui ho parlato faceva emergere qualche ragionevole dubbio sulla responsabilità del ragazzo e sulla accuratezza delle indagini fatte. Forse il giovanissimo Dario finì, con i suoi precedenti, per pagare per tutti.

La verità, in una vicenda come questa, è ormai probabilmente persa per sempre e nessuno può avere certezze.

Ma la memoria di Dario andrebbe con ulteriori ricerche riabilitata o per lo meno riportata alla luce in maniera più dettagliata, facendola uscire da quell’alone maledetto che i ricoverati di un qualunque manicomio si portavano appiccicato addosso.

 

Sarebbe un’operazione in qualche misura somigliante a quella che in questo periodo, con pochi amici, cerchiamo di fare per risollevare le sorti del quartiere Conolly, dove si è svolta in larga parte anche questa storia. Non perdere cioè il ricordo di quello che lì dentro è avvenuto e in nome di quella memoria riuscire a trasformarlo in un centro culturale internazionale che risollevi le sorti dell’intero comprensorio del vecchio manicomio, attualmente leggermente in decadenza. Purtroppo, mi pare di cogliere alcuni aspetti comuni tra le due vicende: nessuno ne vuole più sapere, molti, nel caso del Conolly, voltano la testa da un’altra parte in nome dell’economia e delle sue priorità e di qualcosa che va sempre fatto prima, condannando quell’edificio non solo all’oblio, ma probabilmente alla sua demolizione. 

Ma, come sempre, la speranza è l’ultima a morire! 

Andrea Friscelli