“Università Aperta”: una riflessione

“Università Aperta” è la manifestazione che, ormai da qualche anno, consente di avvicinare gli studenti delle scuole secondarie superiori al mondo universitario. A cambiare, da città a città, possono essere i mesi scelti per l’evento (in genere febbraio e marzo), i giorni individuati – ad esempio, per l’Ateneo senese, il 17 e il 18 – le modalità di fornire informazioni sull’offerta didattica; in ogni caso, però, la finalità perseguita è sempre la stessa, vale a dire fornire il miglior orientamento possibile a chi si appresta a scegliere quella che sarà la sua Facoltà di domani.
Personalmente, e non ne ho fatto mai mistero, nutro dei dubbi fortissimi sulla validità dell’iniziativa.
Un conto, infatti, è l’orientamento rivolto agli studenti di terza media, un conto quello rivolto a studenti di quinta liceo. Nel primo caso, infatti, esso può avere una sua utilità, almeno per due ragioni. La prima è che un ragazzo di tredici-quattordici anni non ha la più pallida idea di come funzioni, a livello di orario settimanale, di materie insegnate, di sbocchi professionali (nel caso degli Istituti tecnici), la scuola secondaria superiore. Molte volte ignora perfino in quale zona della città si trovi. La seconda ragione, forse ancora più rilevante, è che spesso le famiglie, o perché non istruite o perché provenienti da altri Paesi, non possono aiutare i loro figli a fare una scelta
consapevole: si è consapevoli, infatti, soltanto di ciò che si conosce. Quando l’attività di orientamento, invece, ha come destinatari studenti di diciannove anni – che una loro formazione, nel senso che ancora di recente ha chiarito Umberto Galimberti su D la Repubblica, in data 13 febbraio, dovrebbero averla pur conseguita nei cinque anni di Liceo – mi pare che essa sia del tutto inopportuna. Non mi risulta, infatti, che rispetto a quando nulla di tutto ciò esisteva, sia diminuito in modo significativo il numero di coloro che, dopo qualche mese o dopo qualche anno, cambiano Facoltà o abbandonano addirittura gli studi. Ma c’è un’ulteriore considerazione da fare. Questa diffusa pratica dell’accoglienza, questo atteggiamento paternalistico, questo prendere per mano il bambino maggiorenne, lasciandolo assistere ad alcune lezioni, mostrandogli gli ambienti, facendolo parlare con i docenti, io trovo che abbia qualcosa di fastidiosamente peloso. L’Università italiana, che ha messo su questo baraccone, il quale ha avuto il suo momento più alto – o più basso a seconda dei punti di vista – il 9 febbraio con il “Salone dello studente”, presso la Leopolda di Firenze, è la stessa, giova ricordarlo, che, come attesta il rapporto Eurydice, è tra i paesi europei con
le tasse più care (mediamente 1200 euro all’anno), se è vero che viene subito dopo Inghilterra e Paesi Bassi, e con borse di studio decisamente insufficienti. E la cosa più triste è che io di questo dato non mi stupisco affatto, essendo l’Università, coi suoi privilegi, coi suoi baroni, con le sue cordate, da sempre la fotografia dell’Italia: e dove un governo arriva a concepire l’idea di fare cassa coi morti – vedi pensioni di reversibilità – può apparire naturale, pur non essendolo, che l’Università faccia cassa con le tasse degli studenti. Timeo Danaos et dona ferentes.

Francesco Ricci

Docente di Lettere

Liceo Classico Enea Silvio Piccolomini Siena