Le parole della Psichiatria

SALVARE LA MEMORIA STORICA DELL’UNICO PANOPTICON BENTHAMIANO ANCORA ESISTENTE IN ITALIA (L’EDIFICIO DEL REPARTO CONOLLY NELL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO DI SAN NICCOLÒ, A SIENA): SIENANEWS SOSTIENE LA CAUSA E FA CONOSCERE AI PROPRI LETTORI LA STORIA E LE OMBRE DI UN PEZZO DI STORIA DELLA CITTÀ.

Come ogni attività umana anche la medicina avverte i cambiamenti del tempo, delle scoperte che si susseguono, dei cambiamenti sociali e di molto altro. Capita così che entità nosologiche prima presenti in modo massiccio (si pensi ad alcune malattie infettive) piano piano spariscano, uscendo dalla scena e lasciando il posto ad altre. Se questo è vero per la medicina in generale, lo è ancora di più per la psichiatria che risente in modo maggiore della organizzazione sociale e dei cambiamenti che in tale ambito si succedono.

Capita così che malattie che sono state al centro dell’interesse per tanto tempo perdano d’importanza, sbiadiscano e spariscano. Un esempio classico riguarda la grande isteria di fine Ottocento.

Sigmund Freud

Sigmund Freud

Che fine hanno fatto le giovani isteriche con le loro paralisi, descritte per la prima volta da Charcot nell’Ospedale parigino della Salpêtrière? Si badi bene che proprio riflettendo su alcuni casi simili Freud dette, di fatto, origine alla psicoanalisi ed a tutto quello che ne è poi conseguito. Possiamo tranquillamente dire che oggi non ci sono più, finita l’epoca sessuofobica, repressiva dell’era vittoriana, sono finiti anche i tormenti che collegati a pensieri di quel tipo, portavano a quelle manifestazioni, oggi sempre più rare.

Al contrario è vero che attualmente ci sono patologie che prima erano sconosciute e oggi sono diventate di “moda”. Chi adesso non ha sentito parlare di “attacco di panico”? Chi ignora le patologie da disturbi dell’alimentazione o quelli derivanti dalle dipendenze patologiche? Queste dizioni nei manuali di Psichiatria, non di cento anni fa, ma anche solo di quarant’anni fa non c’erano.

La psichiatria, infatti, ha una problematica in più rispetto alle altre discipline mediche che è quella della nomenclatura e di una certa ossessione classificatoria. Molti psichiatri hanno passato la vita a studiare nuovi modi di classificare i disturbi mentali e questa ossessione continua anche oggi dando origine alla pubblicazione dei vari DSM (manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi Mentali) giunta ormai alla sua quinta o sesta riedizione, in cui ogni disturbo è caratterizzato da una descrizione e da un numero che lo identifica. In parte questo è necessario con il sempre più frequente utilizzo di termini psichiatrici in medicina legale, che ha bisogno di diagnosi precise e confrontabili. Ma una interpretazione più maligna farebbe pensare che non avendo di solito la psichiatria tanti successi nel curare, almeno si sfoga a creare una tassonomia più precisa e dettagliata possibile.

È questo, del vocabolario psichiatrico, un argomento di grande interesse storico linguistico, ma che certo esula da queste brevi note. Vorrei, però, senza dilungarmi troppo, portare un esempio per tutti. Fino agli ultimi anni dell’Ottocento i disturbi più gravi portavano sempre la radice “fren”: frenastenia, frenosi, frenite, gli specialisti che studiavano quelle malattie erano i freniatri e la loro disciplina era la Freniatria. Perché?

220px-livi

Carlo Livi

La radice greca “fren” identifica il diaframma ed infatti lì, nei visceri posti sopra e sotto quel muscolo, si collocava anticamente il centro dell’intelligenza e delle passioni, inoltre si diceva che ogni alienazione mentale cominciava sempre con un senso di ambascia ai “precordi”, parola che identifica la stessa zona. Anche Carlo Livi, grande direttore del San Niccolò dal 1858 al 1873, prende parte alla disputa dialettica che si instaura tra Freniatria e Psichiatria con queste parole: “… la parola freniatria ha diritto ad entrare nella scienza e starvi; starvi a significare quella parte delle mediche discipline che prende a studiare e curare le malattie che sin qui impropriamente si dissero mentali. ….. Noi dunque adottiamo la parola freniatria come quella che meglio di ogni altra chiude il concetto della sede materiale organica in cui si elaborano, si secernono le idee, li affetti, i voleri, i sentimenti dell’uomo”. In realtà, com’è evidente, poi la parola Psichiatria, che si basava su una collocazione più cerebrale (e forse più spirituale) dei disturbi mentali, vinse quella battaglia in maniera definitiva, con buona pace del nostro Livi.

Insomma la storia della psichiatria rischia di essere una storia di parole che cambiano ma che finiscono per dare poco aiuto alla sofferenza dell’uomo.

Le cose in realtà mutano quando è stato possibile individuare diagnosi e cura di alcuni disturbi, sgombrando il campo dalle diatribe dialettiche. Come, per esempio, per la storia della sifilide che negli anni di fine Ottocento, prima che ne fosse scoperto l’agente eziologico e la relativa cura, riempì i manicomi con la sintomatologia psichiatrica che caratterizzava lo stadio finale della malattia.

Il discorso sulla sifilide è da questo punto di vista interessante, il suo profilo è in qualche modo assimilabile alla moderna infezione da HIV. Malattia sessualmente trasmissibile, trasversale rispetto alle classi sociali (si ammalavano allora di sifilide e si ammalano ora di HIV poveri e ricchi quasi allo stesso modo), a lungo decorso che finiva per diventare una sorta di maledizione per l’intera vita e che dava sintomi disparati e a carico quasi di ogni distretto corporeo.

Quelli che erano a carico della psiche identificavano quella sindrome che veniva chiamata (di nuovo bisogna destreggiarsi fra le parole) paralisi progressiva o frenosi paralitica e le manifestazioni psichiche erano complesse e multiformi. Riportavano deliri di grandezza non sistematici, assurdi e stravaganti, che si accompagnavano spesso a violenti stati di eccitamento psicomotorio ed altro.

Questa lunga premessa mi serve per portare qualche esempio di tali manifestazioni, alcune brevi vignette cliniche che entrano a ragione, secondo me, tra i classici della vecchia psichiatria, (ancora una volta tratte dal libro “Follie separate” di Martina Starnini). C’è una parola che connotava di solito la descrizione che i “freniatri” di allora facevano di questi pensieri deliranti, una parola che trovo bellissima: venivano definiti deliri “fastosi” per la ricchezza delle loro componenti. Sono questi, come le paralisi isteriche, una sorta di antiquariato psichiatrico, infatti, certi deliri di grandezza che hanno fatto la storia della psichiatria (entrando spesso nel novero delle barzellette sui matti), sono ormai scomparsi quasi del tutto.

Ed ecco alcune storie.

Edmondo è un commerciante di Livorno, ebreo e benestante, che si ritrova ricoverato al San Niccolò per frenosi paralitica nel 1889 e che presenta un delirio ambizioso smisurato che lo porta a firmare la cartella clinica, come allora veniva richiesto ai pazienti che erano in grado di farlo, in tal modo: Edmondo Napoleone Bonaparte Weys Di Savoia Cargnam Imperatore e Messia. Sembra non accontentarsi della genealogia principesca e napoleonica, alla fine è anche Messia. Millanta ricchezze e titoli, ricchezze che aveva (ma non certo nella misura da lui dichiarata) tanto che si trovava ricoverato nella Villa dei Rettanti, cioè dei pazienti a pagamento. Ma che lo portano a dichiarare cose come le seguenti riportate in cartella, rilevate dal medico nel corso del primo colloquio: “regala a tutti milioni e miliardi, sempre ha progetti che presto assicura di mettere in esecuzione; vuol ridurre la Villa a palestra ginnastica, insegnare a cavalcare e cacciare ai rettanti, è inventore di un sistema planetario, vende a caro prezzo le sue orine da cui i profumieri ricavano odori nuovi etc.”.

Sempre da Livorno arriva invece al San Niccolò un poveretto di nome Celestino, saltuario venditore di giornali, licenziato quasi da ogni posto in cui ha lavorato per il suo scarso impegno, per il carattere irascibile e per insubordinazione. Non sembra affetto dalle sequele della sifilide ma, per quello che si può capire dalla storia e dalla cartella, da una struttura di personalità caratteriale connotata da  atteggiamenti istrionici. Infatti si dice certo di essere Principe di Sorrento, figlio adottivo di Vittorio Emanuele e afferma di aver sempre fatto il suo dovere e di aver sempre avuto voglia di lavorare.

Irene, coniugata, affetta da paralisi progressiva, di umile condizione, viene infatti definita nella cartella clinica come “miserabile”. Il suo delirio era cominciato così: “un mese fa morì la Sig.ra C., e lei si era convinta che questa le aveva fatto un lascito di £ 1.500. La sua fissazione cominciò di qui, e particolarmente limitata a idee di ricchezza e dice di avanzare 1.000 £ da Tizio, 1.000 da Caio etc.”.

Maria invece è una vedova cinquantenne molto povera, entrata in manicomio nel 1880, anch’essa affetta da paralisi progressiva, assolutamente certa di aver ricevuto un’eredità da un Farnese di Roma che ella credeva suo parente, nientemeno che Papa Paolo III, (morto nel 1549!).

La serie dei finti principi e dei ricconi fasulli, che finiscono sempre per strapparci un sorriso, potrebbe continuare a lungo spulciando l’archivio storico del San Niccolò, che rappresenta una vera e propria miniera di storie delle vite disgraziate di uomini e donne che hanno affollato in quegli anni l’ospedale Psichiatrico di Siena.

Andrea Friscelli