Vite: fragile e irripetibile. Il nuovo libro di M. Masotti

Vite. L'esistenza è fermentazione

foto di Hartwig HKD

Amare la vita, amare il tempo. E non aspettarsi niente in cambio. Né dalla vita né dal tempo. Amarli in sé, senza volere trovare a tutti i costi, entro la trama sfilacciata dei giorni e delle stagioni, un senso. Piuttosto, fare del nostro “essere-nel-mondo”, unico, fragile, irripetibile, il significato stesso della nostra esistenza. Il coraggio di un uomo forse è tutto qui, nel fare fino in fondo la propria parte, nel condurre a compimento il destino avuto in sorte. Nel vivere la grande Storia, la storia di tutti, e la piccola storia, la storia di ciascuno, senza abbassare la testa, senza alimentare l’orgoglio, restando fedeli alla terra che ci ha visto nascere, alla nostra vocazione interiore – il nietzschiano “Diventa ciò che sei” – , al lascito di memorie e di consuetudini che i “patres” ci hanno trasmesso. Amare la vita, amare il tempo, amare il tempo di vita. E guardare al di là degli strappi, dei dolori, dei fallimenti, dei rimpianti, dei colpi inaspettati ricevuti in piena faccia in un giorno di sole e di amore. E’ questo l’orizzonte, sentimentale ancor prima che terrestre (che fisico), all’interno del quale si viene a collocare, almeno così a me pare, l’ultimo lavoro di Michele Masotti, “Vite”. “Vite”, infatti, è il romanzo della fedeltà, della fedeltà alla terra, della fedeltà a una determinata poetica. Da una parte, infatti, abbiamo il protagonista, Sunto di Bellaria, che giorno dopo giorno alimenta e rafforza il suo legame con la campagna-matria di Montalcino, nonostante la guerra, nonostante il distacco. Dall’altra, abbiamo l’autore, Masotti, che concepisce la scrittura in primo luogo come tenace fedeltà ai grandi maestri del Realismo ottocentesco – Tolstoj in particolare – , come sforzo di riproduzione mimetica (piccolo, infatti, appare lo spazio concesso all’invenzione) di ciò che è avvenuto, il vero della storia, e di ciò che si è prodotto nella coscienza dell’uomo (il vero delle passioni). Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo:

“Il vino parla, si dice, e assorbe. La vita intera, tutta la vita è fermentazione. Sunto siede sullo scalino di cotto, gli occhi piccolissimi, novant’anni passati. Attorcinata alla vite, l’esistenza si dondola sulla sera nel momento in cui le visioni si dipanano nell’animo come una melodia inudibile. Sunto è in silenzio e il vissuto sfila via sotto i piedi, ma non vuole lasciarsi andare alla meditazione, perché si è appena ricordato di dover dire una cosa a Bruna. Cerca la moglie nella limonaia ma non la trova, dev’essere in camera. L’ora del tramonto è prossima, eppure l’uomo sente di non voler rincasare: s’alza dallo scalino e intravede il casolare tutto macchiato dai pollini d’aprile, la luce è differente al calar del sole, una luce opaca. Sunto osserva la dorsale spoglia e che a ottobre maturerà d’acini. La sua mano legnosa si ferma, traccia una linea immaginaria tra il cielo e le viscere del mondo, e là in mezzo si pone lui, in mezzo ai filari. Le striature azzurrine del cielo corrono in basso, dietro la valle, sotto le viti, lo stesso immenso cielo rilascia gli odori appena prima della pioggia, odori nuovi, sostiene Sunto, poiché il lavorio delle stagioni si compie in fretta. Bellaria vede un’alternanza strana, Sunto non se ne raccapezza”.

Michele Masotti, Vite, Betti, Siena, 2015

 

a cura di Francesco Ricci