Nicola Marini, La ricetta del crimine

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Terminato l’ultimo rigo dell’ultima pagina del libro di Nicola Marini “La ricetta del crimine”, il piacere che il lettore prova è, in primo luogo, quello legato alla soluzione del caso. Succede sempre così quando si ha a che fare con un romanzo giallo, specie se il romanzo comincia in medias res. L’individuazione del colpevole, la scoperta del movente, l’emergere di elementi di debolezza in certi alibi, determinano una sensazione di serenità e di soddisfazione – talora perfino di liberazione – in chi per ore o per giorni (magari dopocena, mentre la casa è avvolta dal silenzio e il freddo pare bussare ai vetri delle finestre) è stato testimone attento di una vicenda che lo ha catturato, lo ha appassionato.

Un secondo tipo di piacere è quello che scaturisce dalla significativa presenza in “La ricetta del crimine” di scene d’azione, ad esempio conflitti a fuoco, nelle quali la letteratura pare strizzare l’occhio alla cinematografia, sia a livello di ritmo narrativo (concitato) sia di tecnica rappresentativa (che vede un continuo passare dal primo piano allo sfondo e viceversa). La precisione nell’indicare la traiettoria dei colpi esplosi, l’effetto del lancio di granate stordenti su una banda di criminali, la curata descrizione della tecnica d’assalto usata da un reparto di polizia, la rappresentazione cruda della sparatoria (“Due colpi secchi: il primo gli portò via il pollice della mano che impugnava l’arma e insieme strappò l’indice che si avvolgeva al grilletto: il secondo, si conficcò nella parte sinistra del torace”) finiscono col trasformare la pagina scritta nello schermo di un cinema o di una televisione, facendo risaltare, per contrasto, i momenti più pausati e statici dell’intreccio, come lo sono certi dialoghi o certe descrizioni della città di Siena. Esiste, però, anche un terzo tipo di piacere (meno immediato, ma non meno importante) ed è il piacere generato dalla consapevolezza che la lettura del libro di Nicola Marini può favorire una migliore comprensione dell’epoca nella quale viviamo, vale a dire di quella contemporaneità liquida al cui interno siamo tutti immersi, e che è contraddistinta dall’allentarsi dei vincoli comunitari, dal predominio di un individualismo esasperato, dalla riduzione della persona a consumatore perennemente insoddisfatto, dall’allargarsi della forbice tra i pochi ricchi e i molti che vivono sotto il livello di povertà, dal trionfo di una amorale, quando non addirittura immorale, etica del profitto ad ogni costo. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale e consente di apprezzare, tra le altre cose, anche la capacità di Nicola Marini di far coincidere il ritmo della scrittura (qui lento, quasi strascicato) col contenuto narrato, il trasporto di un pesante cadavere in un cimitero di Civitella del Lago.

“Con grande fatica aveva trascinato il corpo per alcuni metri tenendolo sotto le ascelle, vincendo con non pochi sforzi la resistenza opposta dai tacchi delle scarpe che strusciavano pesantemente a terra. Lasciò la presa e il busto fino ad allora trattenuto a mezz’aria, si accasciò al suolo, mentre la testa andò a sbattere sulla lastra di marmo che ricopriva una tomba, provocando un suono sordo, di devastazione…terrificante. Spostati alcuni badili ed altri attrezzi da muratore, liberata una carriola la inclinò su di un fianco facendoci rotolare dentro il cadavere, così da poterlo trasportare più agevolmente fino alla camera per la cremazione. Da molti anni, a notte fonda, quando ormai visitatori, operai e custode erano andati via e il robusto cancello d’ingresso era stato serrato, si muoveva liberamente in quel cimitero del quale era arrivato a conoscere ogni piccolo anfratto. Aveva trovato anche il modo di fare le copie delle chiavi di tutti gli ambienti, cappelle comprese. Non era stato particolarmente difficile, perché erano tenute tutte esposte in una bacheca, dopo aver studiato e annotato il ciclico utilizzo di ognuna di esse e calcolato che di solito vi era almeno un giorno in cui nessuno se ne serviva, era bastato prenderle una per una, lasciando appesa al chiodo una chiave simile a quella originale per il tempo necessario a farne un duplicato”

a cura di Francesco Ricci