La notte in cui crollò la torre – settimo capitolo

La notte in cui crollò la Torre, una fiction attraverso la quale si raccontano le mutazioni a cui il sociale in genere, e quello che si occupa di psichiatria in particolare, sta andando incontro in questo periodo di crisi. Il tentativo dell’autore è quello di dare un piccolo spaccato di come si sia sviluppata ai giorni nostri quella parte di assistenza psichiatrica che si interessa di reinserimento lavorativo e che si è sviluppata soprattutto attraverso la cooperazione sociale. Questo movimento, molto presente anche a Siena, e che ha alle spalle diversi decenni di storia, sta vivendo adesso un momento critico e rischia attualmente di subire mutazioni importanti se non addirittura di finire. È naturalmente una storia inventata, almeno nei personaggi e nei fatti raccontati ma molto verosimile. È invece ambientata in luoghi conosciuti e familiari per molti di noi: la valle di Porta Giustizia. E una storia che cerca anche di mescolare le vicende di fantasia con la crisi generale di questi anni e con la crisi di Siena in particolare, raccontata in un modo metaforico e surreale.

CAPITOLO 7 – Simone

Simone proveniva da una famiglia che era stata agiata, molto agiata. Poi la ricchezza era piano piano svanita fino a mutarsi in uno stato di povertà imbarazzante. Tutto questo grazie agli investimenti sbagliati dei genitori, minati da un senso di grandezza grazie al quale pensavano di potersi lanciare nel mondo dell’imprenditoria senza rischi o pericoli. Così nel corso degli anni le cose erano precipitate e prima il padre e poi la madre erano morti senza apparentemente riconoscere i loro sbagli e trasferendo a Simone, oltre alla crescente povertà, un enorme malloppo inestricabile fatto di paure e sconfitte inspiegabili se non con il ricorso alla cattiva sorte o a qualche altra storia che non implicasse mai un serio esame di coscienza. Lui, conseguentemente alla sua condizione familiare, era stato indirizzato agli studi di giurisprudenza, ma per un bel numero di anni aveva fatto la vita del fuori corso e quando aveva provato a riprendere l’università, era troppo tardi per la sua testa. Del resto quel sottofondo di malinconia drammatica che caratterizzava la sua personalità gli aveva impedito di fare vita gaudente anche quando poteva e aveva finito per passare anni di fannullaggine, ottenendo solo il risultato di rovinarsi il fisico con alcool e qualche droga. A sessantuno anni appariva un po’ più vecchio, con un corpo sbilenco e asimmetrico su cui spiccava il volto enigmatico e sempre incerto tra un sorriso e una smorfia di disgusto perenne. Non aveva mai lavorato fino a quando il suo terapeuta lo aveva indirizzato verso un’attività protetta presso una cooperativa sociale. Così, dimostrando umiltà e spirito di adattamento, aveva cominciato a svolgere lavori semplici, puliva pavimenti e scale, zappava nell’orto, custodiva ambienti universitari. In quelle ore si sentiva impegnato e forse lasciava da parte i brutti pensieri, costanti compagni delle sue giornate.


La sua vita, infatti, era sempre stata piena di ansia, di voci interiori che lo umiliavano, ma da qualche tempo la sua situazione psicologica, se possibile, era ancora peggiorata. Tutto per via di quel maledetto assegno che qualcuno, giù in cooperativa, aveva preso, ma chissà come la colpa era stata affibbiata a lui.
È vero in quel periodo aveva un bisogno estremo di soldi, la sua condizione economica peggiorava tutti i giorni, quindi il movente c’era, ma lui non l’aveva preso l’assegno, o meglio…non c’era riuscito.
In verità le accuse non erano state esplicite. Lo avevano chiamato in ufficio, gli avevano chiesto solo con insistenza se lui c’entrava qualcosa. Mimma, più degli altri, lo aveva fatto guardandolo a fondo negli occhi, tanto era bastato per fargli perdere sicurezza, si era impappinato un po’ nella risposta, insomma per lui era stata come un’accusa esplicita.
Dopo a casa, in quei lunghi pomeriggi da solo, aveva iniziato a rimuginare su quelle richieste, un po’ se ne sentiva offeso, dentro di lui saliva una rabbia mista a senso di colpa che gli faceva digrignare i denti da solo, immaginava scene sadiche in cui torturava Mamadou, che l’aveva convinto a provarci. Nella fantasia lo sottoponeva alle peggiori cose. Poi recuperava un po’ di calma pensando che insomma… alla fine non aveva fatto nulla.
Così il timore di sé e la profonda disistima che qualcuno gli aveva con metodo instillato dentro cominciarono a lavorare e arrivarono pensieri peggiori. Cominciò col ripercorrere i movimenti di quella mattinata. Lui, quel giorno, lavorava non lontano dall’ufficio, aveva l’intenzione di cercare Paolo. Gli voleva chiedere un altro anticipo sullo stipendio, poi il nero gli aveva messo in testa di tentare il colpo e alla fine, come sempre, si era arreso all’insistenza del più forte. Aveva gironzolato lì vicino in attesa che Mamadou gli desse il via. La scusa era sempre di cercare il presidente ma, distratto com’era, non si era accorto che Paolo era uscito in fretta dalle scalette e così forse quel suo star lì come un cretino ad aspettare senza far nulla era tornato in mente a qualcuno dopo la scoperta del furto ed era diventato sospetto.
Ma mentre ripercorreva i movimenti della mattina, per difendersi meglio, s’insinuò dentro di lui il sospetto di non ricordarsi di tutto, lui era così debole di memoria, come la mamma gli diceva sempre umiliandolo con i suoi commenti. Forse allora poteva davvero aver fatto qualche mossa scorretta che ora non ricordava? Ma davvero allora poteva essere stato lui il ladro? No, no, no si diceva – se recuperava un po’ di lucidità – io non c’entro nulla, punto e basta. Poi di nuovo, in quell’altalena di pensieri solitari, l’incertezza si faceva strada nella sua testa con il timore di aver commesso una colpa senza neppure ricordarsene, senza essersi reso conto. Forse lui era colpevole per definizione, per questo spesso capitava che la gente lo spingesse a fare cose brutte. Magari, come in un raptus, si era preso l’assegno senza neanche accorgersene, senza serbarne memoria. Lui l’aveva anche visto quel maledetto pezzetto di carta, era proprio sul tavolo, dove Paolo l’aveva lasciato dopo averlo “girato”, sarebbe stato un giochetto metterlo in tasca, aveva notato che era un “circolare” e quindi facile da riscuotere ovunque. Ma l’occasione era così facile e la somma così grossa che era andato subito in confusione, non era come fregarsi qualche pezzo da 50. Cominciò a sentire le voci che lo offendevano, gli dicevano: frocio, sei un frocio, non ce la fai, non ce la fai. Tutto nello spazio di pochi secondi ma bastò perché lasciasse stare. Quando uscì dall’ufficio Mamadou lo coprì di insulti. A dimostrazione quindi, per Dio, che non l’aveva fatto, che non aveva rubato nulla…. almeno gli pareva, gli sembrava, e così anche se cercava di rafforzare la sua convinzione imprecando, andava a finire che era sempre meno sicuro di sé.
La girandola dei pensieri non si fermava mai e allora – tra sé e sé diceva – ma se avessi davvero preso quei soldi, che fine hanno fatto? li ho spesi senza neppure ricordarlo? ma se adesso sono più in bolletta di prima…?! E Mamadou?
Ci perdeva il capo e si trovava nella curiosa situazione di doversi giustificare prima di tutti con sé stesso per qualcosa che una parte di lui sapeva con certezza di non aver fatto, ma che la sua parte oscura, quella sempre alleata col nemico, in quel caso rappresentato dai peggiori sospetti che aveva scorto negli occhi di Mimma, lo accusava contro ogni logica di aver commesso.
Quanto poteva resistere in quella condizione? Da solo in quell’enorme casa che, dopo la morte della mamma, perdeva continuamente pezzi. L’orma sui muri del salotto dei quadri venduti, dei mobili che non c’erano più, era quanto di più triste si potesse immaginare. E lui non poteva far altro che assistere a quello sfacelo rimanendone coinvolto, come se i vari creditori gli strappassero insieme agli oggetti tanto cari alla madre, anche brandelli del suo corpo.
E ora si era aggiunta anche quella assurda vicenda dell’assegno.

Verso le due di quella maledetta notte ci fu uno strano boato che fece pensare a un terremoto ma, guarda caso, nessuno pensò a quella eventualità. Forse per via di quella paura che si era ormai infiltrata nell’animo di tanti senesi, molti si avviarono di fretta verso piazza per controllare cosa era successo alla Torre malata.
E lo spettacolo era spaventoso: enormi blocchi di pietra erano caduti e giacevano scomposti sulla conchiglia, qualcuno rimbalzando aveva danneggiato gli edifici vicini, uno aveva aperto una grossa breccia nel tetto del palazzo comunale, la cappella invece era quasi del tutto distrutta. Istintivamente tutti alzavano gli occhi alla torre, ma il buio impediva di vedere bene. In poco tempo la piazza si era quasi riempita, come se si celebrasse una sorta di drammatico e triste palio notturno. Le persone infreddolite e infagottate in modo sommario erano sbigottite e incredule, ma possibile che la Torre fosse crollata? – si leggeva nei loro sguardi attoniti e persi.

Andrea Friscelli

ANDREA FRISCELLI È NATO A SIENA, DOVE HA STUDIATO AL LICEO PICCOLOMINI E SI È POI LAUREATO IN MEDICINA NEL 1974. SPECIALIZZATO IN PSICHIATRIA, HA LAVORATO NEL SERVIZIO PUBBLICO FINO AL 2001, QUANDO SI È DIMESSO PER SEGUIRE A TEMPO PIENO LE VICENDE DELLA COOPERATIVA LA PROPOSTA CHE HA CONTRIBUITO, INSIEME AD ALTRI, A CREARE. HA PUBBLICATO PRESSO L’EDIZIONI IL LECCIO “DI STOFFA BUONA” (NOVEMBRE 2011) E “NELLA CRUNA DI UN AGO” (DICEMBRE 2012).PRESSO BETTI EDITRICE INVECE HA PUBBLICATO “L’ORTO DE’ PECCI E LE SUE STORIE” (SETTEMBRE 2014) E “LO SPLENDORE NELL’ERBA, LA GLORIA NEL FIORE” (DICEMBRE 2015)