Il racconto della malinconia: “Come una pianta di cappero”

cappero

La malinconia è uno stato d’animo – un tedesco parlerebbe di “Stimmung” -, la malinconia è una forma di vita psicotica. La prima reca con sé sofferenza, tristezza, inibizione; la seconda muta in profondità alcune delle strutture fondamentali esistenziali, quali l’intersoggettività, lo spazio, il linguaggio, il corpo. Nella depressività psicotica, infatti, come ha scritto Eugenio Borgna, “il corpo non riesce più a gettarsi là, nel mondo, fuori di sé. Si fa corpo-cosa”. Ogni apertura all’altro viene meno, ogni slancio intenzionale verso il mondo delle cose perde vigore (perde d’importanza) e il volto si oscura, il volto appare pietrificato, il volto tace. La malinconia come stato d’animo e la malinconia come forma di vita psicotica conoscono sconfinamenti e tangenze: la solitudine di oggi può sempre diventare l’isolamento di domani, la stanchezza di affrontare un nuovo giorno può sempre convertirsi in desiderio di morte. Edda, la protagonista femminile del romanzo di Massimo Gronchi “Come una pianta di cappero”, è una creatura segnata (definita) dall’erranza e dalla tristezza. Ma non c’è erranza che non si trasformi prima o poi in nostalgia, non c’è tristezza che, alla lunga, se non attenuata dalla gioia, dalla forza del desiderio, dalla realizzazione di sogni e di progetti, non si converta in condizione depressiva (la malinconia come malattia). E quando al disincanto, alla delusione, al fallimento, viene a sovrapporsi la perdita – Edda perde il padre amatissimo e un fratello – si comincia a scivolare nel gorgo ofelico e pavesiano: non c’è uomo, infatti, che possa vivere solamente di “ombra”, assumendo la parola nel significato, caro a Simone Weil, la Simone Weil tradotta da Franco Fortini, di pesantezza, di oscurità, di dolore dell’anima. Quello che segue è un passo del libro nel quale Edda, che ha lasciato la Sardegna per raggiungere prima Palermo e poi Roma, ripensa alla sua terra d’origine. Si presti attenzione all’area del verbo, che suggerisce l’incapacità / impossibilità di vivere il presente (“ricordare”, “riconoscere”, “immaginare”, “desiderare”) e, dunque, l’evasione verso un altrove spaziale e temporale:

“Aveva ricordato il terreno assolato ai piedi del palazzo del quartiere popolare dove correva da bambina. Le camminate a piedi nudi in cerca di silfidi e ortica con cui faceva la zuppa in autunno. Aveva ripensato agli inseguimenti dietro alle libellule e alle farfalle, alla varietà di coccinelle che popolavano il giardino di margherite, alle lumache che raccoglieva tra i cardi per farle cuocere nel pomodoro. Si era figurato il Colle San Michele come fosse di nuovo affacciata alla terrazza di casa. Aveva riconosciuto il suo profilo contro il cielo azzurro di inesauribili primavere. Aveva immaginato di scalare le rocce arroventate dal sole sotto le grandi latomie fino alla rovina del castello con la massiccia base quadrangolare e le tre torri superstiti cinte da mura. Aveva desiderato di arrivare in cima dove avrebbe visto l’orizzonte e il mare cobalto che a volte, nelle giornate estive, le pareva di sentire rumoreggiare contro i faraglioni della Sella del Diavolo. Pensava alle abitudini irritanti della sua famiglia, ai vicini pettegoli e chiassosi, a Rita e alla sua danza, a Carla e al suo carrello, a Eleonora che camminava da sola, a se stessa che ritrovava, tra le lacrime che scendevano copiose, la speranza di tornare a casa”.

Massimo Granchi, Come una pianta di cappero, 0111 Edizioni, Varese, 2013

 

a cura di Francesco Ricci