Giuseppe Semboloni, I miei amici alberi e la loro voce

Giuseppe Semboloni, I miei amici alberi e la loro voce, Siena, nuova immagine 2018

C’è molto amore ne “I miei amici alberi e la loro voce”, c’è molto amore e c’è molto ottimismo. Amore per tutto ciò che è pianta, fiore, frutto, per tutto ciò che nel silenzio nasce e nel silenzio prende congedo dal mondo, assecondando il ritmo delle stagioni. Si tratti di creature di un sol giorno o di creature secolari, siano ora bagnate dalla pioggia, ora indorate dal sole. Rose, biancospini, margherite, peschi, ciliegi, querce. Lo sguardo di Giuseppe Semboloni si posa su questi frammenti naturali e, là dove lo scienziato è portato a cogliere e misurare la distanza che separa il regno vegetale dal regno animale, lo scrittore vi rinviene tangenze e affinità. Ed è proprio su questa base – a partire da questa scoperta – che anche il colloquio con i cerri (“Parlando ai miei cerri mi sono emozionato, il pensiero è andato a ritroso nel tempo: ricordo quando erano adolescenti come me”), l’ascolto dei cipressi (“Vicino a loro mi sono fermato tante volte per arricchirmi dei loro linguaggi, dei silenzi, della musica nata in giorni di tramontana”), il saluto rivolto al fico verdino (“Per me è sempre stato un albero amico; ogni volta che passo a lui vicino, lo osservo con ammirazione e gli faccio un gesto di saluto”) appaiono non già come qualcosa di meraviglioso, bensì come momenti (e azioni) di una quotidianità normalissima e familiare.

Accanto all’amore il secondo elemento de “I miei amici alberi e la loro voce”, che si fa cifra tematica e sentimentale al contempo, è l’ottimismo. Un forte ottimismo, che non ha riscontri nella letteratura italiana (improponibile risulta l’accostamento a “Il segreto del Bosco Vecchio” di Dino Buzzati), al punto che, dovendo istituire un confronto, penserei piuttosto all’Ottocento americano, in quell’area compresa tra Walt Whitman e Thoreau. Un ottimismo, però, che non scaturisce dall’idea del futuro come età della conquista, dell’esplorazione, del progresso; al contrario, si nutre del passato, guarda al passato, lo recupera attraverso il ricordo e lo propone come punto di partenza per ripensare il rapporto tra l’uomo e le risorse del nostro pianeta, certo della forza metastorica di alcune verità: “L’uomo può intervenire e dare un contributo a fin di bene alla natura, lei parla all’uomo, lui deve raccogliere  la parola e trasformare in atti concreti ciò che la natura suggerisce”.

Eppure, né l’amore né l’ottimismo esauriscono il significato e racchiudono il tono complessivo de “I miei amici alberi e la loro voce”.  C’è qualcosa di più, c’è qualcosa di diverso, che è poi quanto origina – e spiega –  la commozione che afferra il lettore e sopravvive in lui una volta che il libro è finito e viene riposto sul tavolo, mentre il giorno muore e la legna continua a crepitare nel camino. Questo qualcosa è lo sconfinato rispetto che Giuseppe Semboloni porta a ogni singolo attore dell’universo contadino, tenendosi, però, lontano da ogni acritica idealizzazione (la vita in campagna, infatti, sa essere anche dura e spesso è avara di raccolti). La natura, in sostanza, può essere un modello di innocenza, ma non un paradigma di forza. Al pari dell’uomo, infatti, che di loro si prende cura, anche gli alberi, e la stessa cosa vale per gli animali, sono continuamente esposti alla forza degli agenti atmosferici, alle malattie, al morire. E proprio per questo – sembra dirci lo scrittore – occorre amarli e proteggerli, perché sono fragili, al pari di tutto ciò che vive, come quei ciliegi che “non sono riusciti a resistere ai cambiamenti climatici degli ultimi cinquant’anni”, come il noce, che “iniziò a dare i primi segni del tempo che aveva vissuto”, con “alcuni rami che cessarono di vegetare”, e che da ultimo “trascorso il letargo invernale, non ebbe la forza di continuare a vivere”.

Quanto precede costituisce parte della prefazione che ho avuto il piacere di curare per il nuovo libro di Giuseppe Semboloni, intitolato “I miei amici alberi e la loro voce”, arricchito anche da un’introduzione di Lella Boschini e da alcune note di Fabio e Lori Mazzieri. Quello che segue, invece, è l’inizio dell’ampio prologo scritto dall’ autore.

“Sono tornato a visitare il bosco, il mio bosco. Questo desiderio infantile mi ha accompagnato nel tempo. Gli anni della mia infanzia si sono consumati nel bosco, dentro al bosco. Il mio compito era quello di pascolare gli animali: essi trovavano i frutti, tanto prelibati, prodotti dalle piante del bosco. Ho pronunciato questa parola, a me tanto cara, ben cinque volte in poche righe, è una scelta voluta. Motivo: io amo le piante del bosco, con loro ho passato tanto tempo, ho imparato ad osservarle in tutti i loro particolari. Osservando il colore delle foglie, la dimensione del tronco, la forma dei loro rami, spesso ho sentito anche la loro voce. Nei mesi invernali ho visto, ed ho accarezzato, spesso, dal lato nord, il muschio nei tronchi: è una sensazione bellissima. Quante volte, nelle lontane festività natalizie, si raccoglieva in un cesto, a piccoli guanciali e poi lo portavamo a casa per fare il Presepe. In quei gesti così semplici e spontanei c’era tutta la felicità di una infanzia vissuta in un’epoca tanto disagiata e difficile. Adesso, mentre osservo quelle piante antiche, secolari, torno un po’ bambino perché mi ricordano tanti eventi vissuti insieme a loro. Le fredde stagioni degli inverni, i rami ricoperti da guanciali di neve, le piogge che arrivavano improvvise e l’unico ombrello per potersi riparare era la chioma di un albero vicino”.