Francesco Boer, Il viaggio sotterraneo

Francesco Boer, Il viaggio sotterraneo, Milano, Mursia, 2014

Viaggio d’avventura, viaggio d’esplorazione, viaggio d’iniziazione, viaggio di formazione Qualunque sia lo spirito col quale un viaggio viene intrapreso e qualunque sia la finalità che viene perseguita, certo è che il viaggio segna la nascita della letteratura occidentale (l’“Odissea” di Omero, infatti, altro non è che la storia di un “nostos”, vale a dire di un “viaggio di ritorno”) e ne accompagna l’intero corso (si pensi, in ambito novecentesco americano, a due grandi romanzi come “On the road” di Jack Kerouak e “The Road” di Cormac McCarthy). Ora in bilico tra fantasia e realismo ora marcatamente inclinata verso uno dei due estremi in questione, la narrativa di viaggio dà voce a due di quelli che Simone Weil definì “i bisogni dell’anima”: il conoscere e il raccontare. Se tutti amiamo e ricordiamo quasi a memoria il breve discorso (“orazion picciola”) che Ulisse rivolge ai suoi compagni di navigazione nel XXVI canto infernale, suggellato dalla memorabile coppia di endecasillabi “fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”, è perché quell’innato desiderio di conoscere noi tutti lo percepiamo con intensità, al pari della voglia di mettere gli altri al corrente di quanto abbiamo veduto, ascoltato, imparato: noi uomini siamo un dialogo, un colloquio incessante. Il tema del viaggio è anche al centro dell’ultimo lavoro del goriziano Francesco Boer, come già il titolo rivela (“Il viaggio sotterraneo”). Da Ronchi dei Legionari a Venezia, da Mantova a Pievepelago, da Fucecchio a Siena, da Chiusi ad Amelia, da Orte a Roma, il protagonista – la voce narrante – si muove sottoterra, in quell’Italia cava e nascosta che costituisce l’immagine speculare dell’Italia di superficie. In questo spazio ipogeo, familiare e straniante al contempo, hanno luogo incontri, peripezie, eventi, fenomeni naturali, fenomeni fisici, che un po’ alla volta – il viaggio si protrae per quarantotto giorni – finiscono col perdere il loro carattere di alterità rispetto al consueto, mostrando in questo modo al lettore quanto sia labile il confine che separa il vero dall’inverosimile. Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo.

“E’ stato durante i lavori di ristrutturazione della mia casa che ho trovato l’ingresso. Ce ne sono molti, sparsi per il mondo – eppure trovarne uno non è affatto facile: dicono che se non sei destinato a entrare puoi cercare anche per tutta la vita, ma sarà una ricerca vana. E’ proprio così: gli ingressi vengono trovati, non cercati. E in fondo nessuno li cerca, perché nessuno sa che esistono: quale miglior nascondiglio del segreto? Dopo aver spezzato col martello pneumatico il sottile strato di vecchio cemento che ricopriva la terra, avevo iniziato a scavare attorno alla casa, allo scopo di cambiare le pendenze della pavimentazione del cortile, affinché l’acqua scolasse via senza fermarsi vicino alle mura, causando infiltrazioni e muffe. Non era un lavoro facile. La mia casa è stata costruita sulle pendici del Carso, e scavare in questa terra significa combattere contro grandi e dure rocce, la cui radice scende molto in profondità. Eppure quella roccia era differente. Si capiva che era stata messa lì dalla mano dell’uomo. Pareva una lapide, posta a chiudere l’ingresso di una tomba. Provai a batterla col martello pneumatico; il suono rivelava che dietro la pietra c’era il vuoto. Si spezzò facilmente, con pochi colpi, mostrandomi il segreto che aveva protetto per molto tempo: un buco sotterraneo, una sorta di pozzo circolare che spariva nelle profondità della terra”.

Francesco Boer, Il viaggio sotterraneo, Milano, Mursia, 2014

Francesco Boer, Il viaggio sotterraneo, Milano, Mursia, 2014

 

a cura di Francesco Ricci