E di quanto questa terra offra. Ricordo ancora il viaggio in treno: Agata Florio, Quelll’agosto del ’59

Non è mai facile scrivere un libro fortemente autobiografico, scopertamente autobiografico. Non intendo un libro che contenga la vita dell’autore in modo dissimulato e mascherato. Con questi due avverbi, piuttosto, mi riferisco a un libro nel quale tale vita viene accolta e filtrata unicamente dallo stile, al punto che i personaggi, i luoghi descritti, i fatti narrati, non possono, a rigore, essere definiti verosimili, bensì veri: sono vicende, infatti, realmente accadute a quelle persone, in quel modo, in quel tempo, secondo quella concatenazione di cause ed effetti. Sì, è difficile scrivere un libro fortemente autobiografico, scopertamente autobiografico. La materia urge, preme, incalza, e il rischio è quello di far coincidere il piano dell’esistenza con quello dell’arte, confondendo l’immediatezza e la spontaneità con la bellezza, complice un’errata, e persistente, interpretazione della Letteratura di età romantica. Oppure – altro pericolo – si finisce con l’attribuire eccessiva importanza a una storia, quella personale, che viene fatta assurgere a paradigma dell’intera esperienza umana, con l’inevitabile strascico di delusioni legate alla scoperta che nessuno vi si è riconosciuto, che nessuno ha mostrato interesse per ciò che a noi pareva fondamentale. È anche tenendo presenti queste difficoltà inerenti al genere autobiografico, che si apprezza il romanzo di Agata Florio “Quell’agosto del ‘59”. Gli elementi che lo definiscono meglio sono il senso della misura, la delicatezza, la semplicità, i quali si traducono nella pulizia della pagina, nell’essenzialità delle sequenze dialogate, nell’attitudine a raccontare per ogni episodio ciò che è veramente rilevante, nei ritratti dei personaggi condotti attraverso rapide pennellate, nella posizione dell’io narrante, ovvero della protagonista, che occupa il centro della scena senza mai relegare nell’ombra gli altri uomini e le altre donne, nella discreta esibizione della fiducia nella capacità di autodeterminazione dell’individuo, che si sposa sempre con il riconoscimento dell’importanza rivestita da ciò che gli è esterno (Dio, destino, sorte). A essere, però, misurato, delicato, semplice (nel senso di lontano da ogni complicazione intellettualistica) è, in primo luogo, lo sguardo stesso dell’autore, che si posa sul proprio passato – e dunque sulla propria vita – senza preconcetti o pregiudizi. La sofferenza originata dal dover crescere senza famiglia e l’improvviso trasferimento da Catania a Roma, nell’estate del 1968, non conducono Agata Florio a una visione negativa dell’esistenza, a una visione, cioè, in base alla quale il male sperimentato è annunzio del male futuro, gli addii sono destinati a ripetersi, l’amore e la gioia ci sono preclusi. Il tessuto della vita è di un filo misto. E i colori più belli dell’ordito – grande lezione che “Quell’agosto del ‘59” ci offre – sono quelli che ci regalano gli altri. Come fanno con la protagonista la delicatissima Iolanda, il paziente Valter, le piccole Valentina e Francesca. Più che un romanzo autobiografico – fortemente, scopertamente autobiografico – “Quell’agosto del ‘59” a me pare una celebrazione della solidarietà e dei validi legami, gli unici a garantire significato a un’esistenza, nella quale le ombre e le luci si confondono e ci confondono. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.                    

“Ecco una giornata come tante altre, penso, e mezza addormentata bevo il solito caffè; il suo aroma pervade la cucina e risveglia i miei sensi. Intanto, con una mano alzo le tapparelle: un tiepido sole filtra attraverso le tende blu del salotto, creando sul pavimento geometrie di luci e d’ombre, mentre una sensazione di pace s’impadronisce di me. Da sette anni i miei risvegli sono a Grosseto, una piccola cittadina della Maremma dove tutto scorre con ritmo più lento e, seppure non sia stato facile abituarmi a questo andamento, oggi godo e mi beo della sua tranquillità e di quanto questa terra offra. Ricordo ancora il viaggio in treno: un viaggio di sola andata e nella testa la scelta consapevole di un ulteriore cambiamento della mia vita. Nelle mie orecchie l’assordante stridio delle frenate sulle rotaie e il Lazio era già alle mie spalle. Poi, ecco, all’improvviso davanti a me la Toscana. La prima fermata è stata a Capalbio ed era piacevole la sensazione di benessere che sentivo addosso. La stazione era piccolina ma ben curata, anche la fontana era piccola e dai suoi zampilli l’acqua bagnava le fioriere che accoglievano una cascata di rossi gerani rampicanti. Alcune persone scendevano, altre salivano; una signora salutò e prese posto accanto a me. Era in vena di chiacchierare, cominciò a fare domande ma, quel giorno, non avevo proprio voglia di ascoltare né tantomeno di fare conversazione. Avevo voglia di non staccare dal finestrino i miei occhi, che catturavano un’immensa distesa di girasoli”.

 

Agata Florio, Quell’agosto del ’59, Effigi, Arcidosso 2018

 

a cura di Francesco Ricci