Duccio Balestracci. Il Palio di Siena. Una festa italiana

Ogni volta che il Palio si avvicina – quello del 2 luglio, quello del 16 agosto – con la mente ritorno a Nietzsche. Senza volerlo, senza bisogno di avere tra le mani uno dei suoi libri. Accade tutto in modo spontaneo, direi perfino in modo naturale. Prima di imboccare via di Città, getto uno sguardo a sinistra, verso la Costarella, vedo che nel Campo c’è la terra – come diciamo a Siena – e penso a quando il canape verrà abbassato, a quando i cavalli faranno risuonare il tufo sotto i loro zoccoli, a quando il terzo giro della carriera sarà completato, a quando il mortaretto squarcerà l’incanto del giorno che muore. L’emozione che dieci popoli proveranno durante quel minuto, minuto e venti, e che, successivamente, continuerà a provare il popolo vittorioso, altro non sarà che il nietzschiano “sedersi sulla soglia dell’attimo, dimenticando tutto il passato”.

Presente perfetto, presente assoluto, vertigine di scoprirsi, in quegli istanti, splendidamente indifferenti a ciò che fu, a ciò che sarà. Negli occhi, nella mente, nel cuore, ci sarà posto unicamente per dei colori (di un giubbetto, un fazzoletto, una bandiera) che rapidi come folate di vento ubriacano di esaltazione e orgoglio uomini e donne, dimentichi di ogni loro ieri, orfani di tutti i loro domani. Per sessanta secondi, per ottanta secondi, ogni senese avrà il privilegio di “sedersi sulla soglia dell’attimo”, dove tutto si confonde e tutto si mescola, la speranza e la delusione, la gioia e la disperazione, il rinascere e il morire. Dopo, trascorso quel breve tempo, tutto tornerà a differenziarsi, a separarsi, a farsi razionalmente chiaro, tranne che per i vincitori, che a lungo leveranno i loro canti di giubilo fino al cielo. Loro sarà il vanto, loro l’orgoglio. Identico, però, resterà l’amore che ogni contradaiolo nutre per il proprio rione, amore che un trionfo può accrescere, ma una sconfitta non può fare scemare. E questo è vero soprattutto a partire da quando il Palio di Siena non è più stata una festa (una delle tante) elargita al popolo, bensì una festa fatta dal popolo.

Quando ha avuto luogo questa trasformazione? È stata la sola o ce ne sono state altre? Più in generale, per comprendere il Palio è più di aiuto l’idea di tradizione o quella di innovazione? Lo sventolare in cima alla Torre del Mangia, nel giorno della carriera, della Balzana e del tricolore italiano, cosa può dirci in relazione al rapporto che lega la festa dei senesi alla cultura di un’intera nazione? E perché la conoscenza e la comprensione del Palio costituiscono un formidabile strumento per approfondire la storia degli Italiani e, ancor di più, ciò che nei secoli è andato perduto (ad esempio, la capacità di dire anche “noi”, e non solamente “io”)? Credo che per trovare una risposta a tali domande non ci sia libro migliore del bellissimo “Il Palio di Siena. Una festa italiana” di Duccio Balestracci, che da storico e da contradaiolo ci regala un saggio informatissimo, lucido, scritto con cristallina chiarezza e che, nella mia personale biblioteca, ha già trovato posto accanto a “La terra in piazza” di Alessandro Falassi (e Alan Dundes), ricordato in esergo (“Il Palio di Siena non è una corsa di cavalli. È una festa che è stata molte feste, è il rito di una città e la memoria storica di una civiltà della quale due volte l’anno mette in scena la concezione del mondo”). Il passo che segue è tratto dall’introduzione che reca come titolo “Il Palio: istruzioni per l’uso”.                  

“Due volte all’anno – il 2 luglio e il 16 agosto – Siena si ferma. Perfino l’indicazione corrente dello scorrere del calendario conosce due locuzioni contrastanti e correlate, “prima del Palio” e “dopo il Palio”. Per questi appuntamenti (ai quali talvolta se ne aggiunge un terzo per motivazioni di straordinarietà e la cui data viene decisa per l’occasione) si mobilita la popolazione della contrada per la quale diviene prioritario ciò che si svolge sull’anello di piazza del Campo ricoperto di tufo. Qui, volta per volta, dieci delle diciassette contrade della città disputano il Palio con cavalli assegnati a sorte, ma con fantini di fiducia della contrada stessa. Il Palio, che si corre al tramonto del 2 e del 16, è preceduto, nei tre giorni antecedenti, da una tratta (assegnazione dei cavalli) e da sei prove che si svolgono al mattino e a fine pomeriggio. La penultima è detta Prova Generale e l’ultima, per disputarsi la mattina del Palio, quando non è opportuno stancare più di tanto il cavallo, viene designata come Provaccia, una denominazione che rispecchia lo scarso impegno richiesto. Il punto di partenza della corsa (la mossa e, di conseguenza, quella di arrivo, segnalato da un bandierino di metallo su un’asta) è collocato in corrispondenza dell’accesso alla piazza denominato Costarella dei Barbieri (Costarella e basta, per i senesi) dove è montato il palco dei giudici. I cavalli, che si dispongono in un ordine tenuto segreto fino all’ultimo momento, partono all’abbassamento del canape (contemporaneamente viene fatto cadere anche il canape posteriore che era servito per farli allineare nell’ordine di chiamata) e si lanciano in tre giri della pista, con una durata complessiva che oscilla fra poco più di un minuto e un po’ meno di un minuto e mezzo. Il percorso, estremamente irregolare, è scandito da due curve a gomito molto difficoltose: quella, in discesa, detta di San Martino (per la vicinanza dell’omonima chiesa) e l’altra, in salita, detta del Casato, per essere in corrispondenza della via che ha questa denominazione. Tutto qui”.

Francesco Ricci