Tre anni con Francesco

“Fratelli e sorelle, buonasera!”. Fu questo il semplice ed informale saluto che il 13 marzo di tre anni or sono, non appena eletto, Papa Francesco rivolse dalla Loggia delle Benedizioni al popolo romano e al mondo non senza ricordare affettuosamente il suo predecessore, Benedetto XVI, che aveva rinunciato al “munus petrinum” l’11 febbraio precedente. Quei mesi di inizio 2013 costituirono, per più motivi, una svolta epocale. Eravamo partecipi, infatti, non solo di un evento storico che, pur essendo regolato dalle leggi ecclesiastiche, non accadeva più dal 1294 (con Celestino V, il Papa del “gran rifiuto”); si assisteva anche alla prima elezione di un gesuita sul Soglio di Pietro che, pensando ai poveri e al santo di Assisi (sono parole sue), aveva assunto – ed anche questa era una novità assoluta – il nome di Francesco. Il nuovo Papa si rivolgeva al mondo definendo se stesso e il suo predecessore vescovo di Roma che, riprendendo un’affermazione di Ignazio di Antiochia, presiede nella carità: un segnale evidentissimo di apertura alla sinodalità (“camminare insieme”) e verso i fratelli separati della Chiesa Ortodossa. Così come la richiesta al popolo di una preghiera silenziosa verso Dio affinché benedicesse il Papa appariva come un’ulteriore novità. In quei pochi minuti era già sufficientemente chiaro il programma pastorale del nuovo Pontefice.

Papa Jorge Mario Bergoglio con il nome di Francesco I

Il pontefice: un costruttore di ponti come abbiamo potuto constatare in questi tre anni carichi di segni e di documenti magisteriali. Non v’è dubbio che alla popolarità di Francesco abbiano fortemente contribuito i gesti simbolici: abitare a Santa Marta, usare autovetture di poco valore, una cordialità personale con tutti, compresi i credenti di altre religoni e i non credenti, e un linguaggio pastoralmente chiarissimo. Ma oltre ai gesti sono stati particolarmente significativi il primo viaggio apostolico a Lampedusa, porta d’Europa, terra di tragedie e di palpabile solidarietà; il pellegrinaggio in Terra Santa e l’incontro fra le tre grandi religioni monoteistiche, a dimostrazione che un dialogo fecondo può e deve essere proseguito; gli incontri “storici” con Bartolomeo, Patriarca di Costantinopoli, e quello, epocale con Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie; l’apertura dell’Anno Santo straordinario della Misericordia a Bangui, divenuta capitale spirituale del mondo: un Anno Santo che, per il tema prescelto, è indubbiamente rivolto ai cattolici ma che non esclude nessuno perché la misericordia, come una tradizione secolare dimostra, è anche un enorme valore sociale di per sé universale.

Sono solo alcuni esempi, fra i tanti. È un dato di fatto, e ne sono convinto, che siamo di fronte ad una svolta: un tornante della storia che ha come artefice primario il Vescovo di Roma “venuto dalla fine del mondo”, appartenente ad una famiglia di emigranti e figlio spirituale di una Compagnia, quella gesuitica, che nel corso dei secoli ha fatto della “Missione” (come non pensare storicamente alle “reducciones” dell’America Latina), la sua stella polare. E forse sta tutta qui, oltre ad una profondissima fede e ad una piena adesione alla dottrina del Concilio Vaticano II, l’origine di tanta particolare e palpabile sensibilità: quella del Pastore che “deve avere l’odore delle pecore”.
Giovanni Minnucci