Se dazi e protezionismo sfociano nell’evasione

Non ho mai creduto ai dazi come sistema per regolamentare l’economia né mi convince la politica minacciata da Trump, che auspica tasse a protezione dell’economia americana.

Eppure i nostri amici d’Oltreoceano dovrebbero saperlo, memori del disastro del 1929, cosa vuol dire proporre la cura-dazio per far riprendere un’economia asfittica.

Combattere una depressione con il protezionismo è, in effetti, un grandissimo errore: ciò in quanto non solo l’imposizione di tasse e gabelle non aiuta la produzione ed i consumi interni ma una politica improntata sui dazi provoca, di norma, un aumento esponenziale del contrabbando, del malaffare e della delinquenza economica.

Mi ricordo sempre, nelle mie ormai lontane esperienze, i danni provocati dai vari governi che hanno tentato di bloccare il fenomeno delle importazioni con l’imposizione fiscale, primo fra tutti quello francese che a metà degli anni ’70 bloccò, di fatto, il libero commercio sul suo territorio degli articoli di elettronica giapponesi per favorire la produzione endogena. Ed in effetti non solo in terra d’Oltralpe non si ebbe sviluppo in quel settore ma si instaurò un meccanismo evasivo colossale, alimentato dai porti di Marsiglia e di Bordeaux, che ebbe come effetto il mancato pagamento anche delle imposte base su quei beni.

Protezionismo ed evasione, proibizionismo e delinquenza vanno, cioè, di pari passo: soprattutto in un sistema dove tutto è a disposizione di tutti e dove le esigenze (non più primarie) sono create più dalla pubblicità che dal bisogno.

Mi è molto piaciuto, in tal senso, il comportamento dell’Italia, che più che chiudere le frontiere le ha aperte.

Almeno su questo siamo superiori ai discendenti dello zio Tom.
Viva il tricolore.

Luigi Borri