Perché occorre ripartire dal metodo e cambiare prospettiva

Da tempo quasi tutti si affannano a tentare di trovare una spiegazione, riguardo alla catastrofe economica che stiamo attraversando, su chi riuscirà a traghettarci fuori e quando arriveremo a trovare una soluzione.
La valutazione, tipica della visione gretta di brevissimo periodo, si basa soprattutto sulla individuazione di un soggetto (“chi”) e su una tempistica (“quando”) che è tipica dei paesi governati da dittature o situazioni di mercato protetto ma che cozza con i principi della democrazia e del libero mercato nel quale troviamo a navigare al giorno d’oggi.

Questo è tanto più vero quando si pensi che spesso si uniscono a questi due concetti altri due postulati che derivano più dalle nostre aspettative che da valutazioni asettiche ed economicamente condivisibili.
E cioè al “chi” viene unito  un “elemento di rottura”- di regola un decisionista o un populista, un ‘duce’ in ogni caso – e al quando viene allegato un concetto di tempo che si basa sul “prima possibile”: valutazioni ed aspettative che hanno enorme presa sui “desiderata” delle persone ma che non possono trovare riscontri in ambito oggettivo in quanto clamorosamente fallaci in un sistema governato da partiti e da tempi estremamente allargati.
Diverso è se al posto del chi poniamo l’idea di “metodo” e al quando quello di “prospettiva”. Ed ancora  più in particolare “metodo di governo” e “prospettiva di crescita”.
Il metodo, in quanto tale e come concetto, è un modo di agire  che deriva dall’esperienza e che si modella con l’andare del tempo: quasi scade ad uso e consuetudine, se riferito ai valori principali di uno stato e di una socialità. Esiste un metodo con il quale ci approcciamo alla scuola, alle istituzioni, alle tasse, alla democrazia, al lavoro e ad ogni altro campo del nostro vivere quotidiano. Metodi sbagliati o superficiali portano a crisi irreversibvili in quanto producono comportamenti spesso deviati e dannosi.
Quello che mi viene di dire anzitutto è che se continuiamo a governare le situazioni con il metodo che ci ha portato al fallimento non abbiamo una grossa aspettativa… Cambiare quindi prima di tutto il metodo, soprattutto per chi governa lo Stato, le banche, le imprese ed ogni ganglo vitale del nostro Stato è la parola d’ordine. L’approccio compulsivo/possessivo con il quale viene oggi vista la res publica, l’azienda, la carica bancaria (denaro, visibilità mediatica, potere, ostentazione)  va mutata in atteggiamento di servizio e teso più al bene collettivo che non al proprio fabbisogno personale. Meno lustrini, meno paillettes, meno notorietà e più basso profilo devono essere la parola d’ordine: serietà e rigore morale ,anzitutto, devono imperare in chi ci dirige per far sì che anche il “suddito” si sente in qualche modo obbligato a seguire il dettame di chi dirige. Tradotto in pratica vuol dire meno dividendi e più capitalizzazione per le imprese, tagli a forbice secca per le spese dello stato e più equa distribuzione della ricchezza per gli operatori finanziari.
Cambiato il metodo occorre contemporaneamente definire i confini della prospettiva.
Rispondere cioè alla domanda su come sviluppare, con quel metodo, l’economia al fine di poter creare sviluppo e non involuzione. Difficile poter pensare ad uno sviluppo incentrato su driver meramente finanziari, dopo quello che è successo con le bolle speculative e le crisi bancarie: difficile poter prevedere uno sviluppo che possa andare a braccetto con posizioni di rendita (abbiamo visto i fallimenti delle politiche immobiliari). Impossibile concepire sviluppo in una situazione di disparità sociale funzionale ad economie di trading, visti i grandi problemi sociali che sta attarversando (e dalla quale secondo me sarà travolta) gran parte dell’economia del Far east che alla fine si troverà riallineata, a livello di prezzi e competitività, con le moderne economie occidentali.
Prospettiva e ripartenza quindi dal sistema manifatturiero sia dei beni che dei servizi, che tenga conto di una corretta redistribuzione dei redditi, e di esigenze industriali ,ambientali, culturali e ludiche totalmente mutate negli ultimi dieci anni . Per questo occorrerà investire e puntare in una industrializzazione sostenibile della mobilità (mobilità elettrica o alternativa alle forme tradizionali), ad una edilizia ecosostenibile, a rendere industriali sia le infrastrutture materiali che immateriali e una corretta utilizzazione del tempo libero (industrializzazione della cultura e del turismo).
Gli imprenditori dovranno metterci del suo, le istituzioni dovranno favorire in tutti i modi la creazione di ricchezza, detassando e incidendo direttamente sui piani di sviluppo e le banche, finalmente, dovranno fare il proprio lavoro che è quello di prestare soldi e non di speculare.
Muovendo da questi driver e puntando su questo metodo viene meno “chi” e “quando”…..
Luigi Borri