Luis Sepúlveda, Le rose di Atacama

Luis Sepúlveda, Le rose di Atacama, TEADUE, Milano, 2014

L’uscita di una nuova ristampa, l’undicesima, de “Le rose di Atacama”, mi consente di ritornare su questa splendida raccolta di trentaquattro racconti – ma meglio sarebbe chiamarli brevi storie – di Luis Sepúlveda. Già un semplice sguardo gettato all’indice dei titoli consente di individuare nel viaggio il filo conduttore delle vicende, vicende di personaggi anonimi, narrate dal grande scrittore cileno. “Notte nella selva Aguaruna”, “Sulle orme di Fitzcarraldo”, “Il Pirata dell’Elba”, “Balene del Mediterraneo”, “Il doganiere di Laufenburg”, “Le Rose Bianche di Stalingrado”, “Asturie” suggeriscono e definiscono una geografia che è, al contempo, fisica e umana. Fisica, in quanto costituiscono altrettante tappe di un percorso reale compiuto da Sepúlveda attraverso il mondo; umana, perché gli uomini e le donne da lui incontrate appartengono a una sola numerosa famiglia, che è formata da tutti coloro che, relegati ai margini della società e schiacciati dal potere, hanno deciso di resistere, di non scendere a compromessi col nemico, di non fare la scelta di comodo. Sotto il governo del Terzo Reich, sotto la tirannide di Pinochet, sotto il regime comunista cecoslovacco, ci ricordano questi racconti, è ancora possibile camminare a testa alta, alzarsi al mattino, guardare la propria immagine riflessa nello specchio e non provare vergogna di noi stessi, dal momento che ogni nostro atto e ogni nostra parola continuano ad essere ispirati dal senso di giustizia che ci abita, dalla dignità e dall’amore per la libertà che ci caratterizzano, come testimoniano anche le vicende di Fritz Niemand, di Juanpa, di Miki Volek. “Le rose di Atacama” – le rose che fioriscono solamente una volta all’anno nel deserto che si trova al confine fra il Cile e il Perù – sono una boccata d’ossigeno per chi ama una letteratura che non parli di se stessa, scadendo a vuota e cerebrale pratica combinatoria, ma che ci racconti l’orrore e la meraviglia del mondo, la miseria e la nobiltà dell’uomo, la crudeltà e l’incanto dell’esistenza e che, in particolare, ci ricordi (ne abbiamo un gran bisogno in questo momento e in questo paese) che si può, e si deve, vivere immuni da ogni interessato e pavido servilismo, facendo del verbo resistere “carne, sudore, sangue”. Il passo che segue è tratto dal racconto che porta il titolo di “Tano”.

“Era diventato uno dei tanti abitanti di quella zona proletaria. Annotava i debiti di chi comprava a credito in un grosso quaderno dalla copertina nera, distribuiva generose fette di mortadella a noi bambini, ci iniziava ai segreti delle opere liriche che rallegravano la sera con i dischi a sessantotto giri, e ogni volta che l’Audax Sportivo Italiano riportava un trionfo sui campi di calcio, invitava tutto il quartiere a festeggiare nell’emporio. La festa più bella si tenne il 4 settembre 1970. Quella sera il quartiere aveva molti motivi per stare allegro: Salvador Allende aveva vinto le elezioni presidenziali e don Giuseppe non solo sposava la signora Delfina dopo una relazione molto discreta durata vent’anni ma, come annunciò emozionato al culmine della festa, aveva appena preso la cittadinanza cilena. Lo vidi per l’ultima volta nel 1994. Era un vecchio. L’emporio non esisteva più e neppure il quartiere, che era stato divorato dalla miseria. Ma i suoi vetusti dischi a sessantotto giri continuavano a inondare la sera di amori impossibili e di voci eterne. Bevvi con lui vari bicchieri di vino. Ascoltai ancora una volta la sua storia, e alla fine mi dispiacque rispondere di sì quando mi chiese se era vero che in Europa gli immigrati venivano maltrattati”.

Luis Sepúlveda, Le rose di Atacama, TEADUE, Milano, 2014

Luis Sepúlveda, Le rose di Atacama, TEADUE, Milano, 2014.

 

a cura di Francesco Ricci