Le storie del manicomio – Modesta e la sindrome di Stoccolma

 

Molti sono stati i modi di “attraversare” l’esperienza di un ricovero in manicomio. La maggioranza è stata forse caratterizzata da un’iniziale ribellione che è poi lentamente sfumata in una passività devastata dal tempo. Forse era questo il risultato che l’istituzione cercava: rendere docili e mansueti coloro che prima non lo erano, normalizzare le idee stravaganti rendendole quelle “normali” della maggioranza, correggere gli stati emotivi eccessivi e fuori dalle righe.
Ma naturalmente, vista l’infinita variabilità dell’uomo, ci sono stati anche percorsi diversi, a volte quasi sorprendenti, ed oggi ne voglio raccontare uno, quello di Modesta.
Angioli Modesta proviene da Arezzo, ha cinquant’anni, è coniugata, la sua professione viene riportata con la dizione un po’ cruda di “serva”, in sostanza va a servizio nelle case di famiglie benestanti. Si ricovera al San Niccolò nel febbraio del 1880.
Al primo incontro il medico accettante riporta che i primi sentimenti depressivi risalgono a circa tre anni prima e fanno riferimento ad un dispiacere domestico non meglio identificato.
Nell’ultimo anno però il suo comportamento è peggiorato ed ha preso ad essere preoccupante: sempre taciturna e un po’ disorientata, fa cose strane e pericolose come spargere la brace dello scaldino per casa (quella dove serviva), oppure, sempre nelle vesti di domestica, recarsi nei negozi a fare la spesa per poi andarsene senza aver pagato. Spesso piange senza apparente motivo.
L’esame psichico mette in evidenza oltre a questi elementi depressivi anche una facile emozionabilità per cui piange per un nonnulla. Dal primo colloquio si capisce che il dispiacere è probabilmente legato alle vicende coniugali, da molto tempo ad Arezzo non vedeva più suo marito da cui era stata di fatto abbandonata.
Il medico si pone qualche dubbio diagnostico, si chiede cioè se la paziente senta le voci o se invece certi fenomeni possano essere derubricati a “illusioni”, un fenomeno psichico meno grave delle allucinazioni. Alla fine propende per una diagnosi di lipemania semplice (oggi si direbbe depressione) e le prescrive una cura che definisce igienico – morale. Con questo si intendeva l’avviamento o il ritorno al lavoro e ad una routine di vita simile a quella esterna.
Nei primi tempi del ricovero tiene un comportamento fastidioso, sempre dietro a qualcuno a piagnucolare, si “attacca” ai dipendenti del manicomio cercando ogni volta di uscire dall’istituto con loro, anche se non oppone resistenza quando qualcuno la riporta nella sua sezione. All’inizio viene spesso ritenuta d’intralcio alla vita del reparto, lamentosa e “noiosa” com’è, sempre pronta a tentare la fuga all’inglese, poco volenterosa nel lavoro tanto che la spediscono per un breve periodo al Conolly dove le prescrivono anche una leggera dose di morfina.
Ed ecco che il ricovero prende, dopo qualche mese, una piega inaspettata. Modesta si affeziona alle suore. Così riporta il medico nelle note cliniche: “continua ad amare appassionatamente le suore fino al punto di seguirle quasi estatica in tutti i loro passi; si è fatta più trattabile che per il passato e adesso non solo disimpegna la pulizia del quartiere ma si rivolge spesso al medico, cosa che prima non faceva mai, per domandare con insistenza che le siano affidate le chiavi come alle guardie (così venivano chiamati gli infermieri, ndr) a cui le pare di avere diritto, dice lei, visto che svolge un servizio come quello di una guardia.” Se questo comportamento viene prima visto in funzione di un tentativo di fuga, poi anche il medico si convince che Modesta è solo bramosa di farsi accettare ed apprezzare dal personale. Aggiunge anche che quando per i normali turni di servizio, una suora cambia e non è più presente, si dispera e per qualche giorno non mangia.


Poi l’affetto si sposta sul Direttore e crede di essere da lui corrisposta e si vanta con le altre di questo fatto, anche le ammonizioni – sostiene – di poterle avere solo dal “suo Direttorino”. Si dispera quando lui non può venire alla visita. La sua aspirazione massima sarebbe di essere presa dal Direttore come sua governante, oppure di essere assunta come guardia (infermiera). Per il resto il suo ricovero ha preso ad essere caratterizzato da una ottima laboriosità, è addetta alle pulizie che disbriga regolarmente nel suo reparto. Si arrabbia solo quando qualcuno le fa notare con realismo la sua stramberia: lei è una ricoverata e non una dipendente del manicomio.
Nel 1889 (sono passati quasi dieci anni dal suo ingresso) la deputazione provinciale di Arezzo ne dispone il trasferimento nell’ospizio di mendicità di quella città e di lei, donna ormai quasi sessantenne, non sappiamo più nulla.
È evidente che Modesta ha finito per identificarsi con l’istituzione ed i suoi rappresentanti: il Direttore (che in quegli anni era il prof. Funaioli), le suore e le guardie. Entrata stabilmente in quell’ambiente, pare esprimere in quel modo il suo bisogno di dipendenza e di attaccamento, di sentirsi utile e servizievole. Anche la sua affezione verso il Direttore non pare connotata tanto da elementi erotici, ma dalla volontà di essere al suo servizio ogni giorno, trovando così un ruolo definitivo per sé stessa al fianco dell’espressione massima del potere manicomiale.

Con l’espressione sindrome di Stoccolma si intende un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Il soggetto affetto dalla sindrome di Stoccolma, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.
L’espressione fu coniata dal criminologo e psicologo Nils Bejerot a seguito di un caso avvenuto appunto in quella città dove le persone prese in ostaggio da un rapinatore finirono per solidarizzare con i loro rapitori al punto da temere l’intervento della polizia. L’evento e poi la creazione di quella espressione sono degli anni Settanta del Novecento (del 1973 per esattezza). Fin dall’inizio è stata un’espressione fortunata che è entrata rapidamente nel gergo comune, anche se non è mai per la verità entrata in nessun trattato di Psichiatria. Lo psicologo svedese ne distingueva anche alcuni stadi successivi, che vanno da una iniziale incredulità, alla illusione di ottenere presto la liberazione, alla delusione perché questa non avviene, all’impegno in un lavoro fisico o mentale a fianco dell’aggressore.
Ma le dinamiche psicologiche che stanno alla base del fenomeno sono naturalmente sempre esistite, anche prima che qualcuno avesse il colpo di genio di etichettarle e descriverle in quel modo, ed a me sembra che Modesta abbia sofferto di quelle stesse problematiche in un modo evidente, anche se cento anni prima non si chiamavano a quel modo.
Chissà – mi chiedo per esempio – come avrà preso il suo trasferimento ad Arezzo? Non mi stupirei se avesse pianto nel lasciare quei luoghi che rappresentarono per lei ad un tempo una lunga segregazione ma che furono anche tanto amati.
Insomma, grazie a Modesta ed alla sua storia, forse la sindrome di Stoccolma si sarebbe potuta anche chiamare la sindrome del San Niccolò.
Bastava pensarci!!

Andrea Friscelli