Le storie del manicomio – Filippo P. colpevole per definizione?

 

È la sera del 5 aprile 1910, la Pasqua è passata ormai da una settimana ma Siena è sotto una pioggia torrenziale. Sono le 22 e 15 e un uomo traversa Piazza Umberto 1° (attuale piazza della Posta) camminando verso la Lizza. È il dottor Antonio Pisaneschi, psichiatra al San Niccolò, conosciuto e stimato professionista, ben inserito nella vita sociale cittadina anche per il fatto di essere consigliere comunale. Si sta recando, come fa spesso da un po’ di giorni, a casa del prof. Funaioli (Direttore del Manicomio fino a tre anni prima e docente universitario di Psichiatria presso il locale Ateneo) che abita lì vicino, quando uno sconosciuto lo aggredisce alle spalle e gli vibra una coltellata che lo colpisce sopra il fianco destro. Il medico non si rende subito conto di quello che è successo e non fa a tempo a riconoscere chi lo ha aggredito, ma quando si tocca il fianco vi trova conficcato il coltello che lo ha ferito. Prova a inseguire l’aggressore, poi le forze cedono, chiama aiuto e viene soccorso. Portato all’Ospedale viene operato d’urgenza per rimediare alla lacerazione peritoneale che la lama ha provocato, infilandosi per otto centimetri tra rene e fegato. Il Pisaneschi sostiene che l’aggressore aveva un mantello nero e con la sinistra reggeva un ombrello che oltre alla funzione di ripararlo dalla pioggia assolveva anche quella di nascondergli il volto, per cui non ha potuto vederlo e riconoscerlo.
Il fatto scuote l’opinione pubblica e sui giornali dell’epoca tiene banco per diversi giorni, fino a che il Pisaneschi (ma dovrà passare quasi un mese) viene dichiarato in via di guarigione.
Il suo pensiero riguardo al colpevole dell’aggressione va subito ad un giovane che è stato più volte degente al San Niccolò: Filippo P. Ciò che lo rende indiziato è che durante una delle degenze ha aggredito con modalità simili un altro medico (il dr. Stiatti), che è persona impulsiva e aggressiva e che, soprattutto, da tempo cova del rancore tanto da accusare tutti i medici dell’Ospedale di averlo sottoposto, durante i suoi ricoveri, a torture e angherie di vario tipo. Inoltre il ragazzo (che ha 21 anni) nel giorno successivo all’accaduto si è lasciato andare a manifestazioni di giubilo, “festeggiando”, per così dire, il ferimento del dr. Pisaneschi.
Questo brutto fatto segna il punto di svolta definitivo di una lunga vicenda che da sanitaria è diventata un fatto di cronaca nera e successivamente diverrà una storia giudiziaria di cui purtroppo non conosco (ancora) la fine.
Filippo infatti è un paziente abituale del manicomio. Lo conosce per la prima volta in tenera età. Proviene da una famiglia numerosa e modesta, ha un fratello più grande e due sorelle più piccole. È rimasto orfano del padre in tenerissima età e, viste le condizioni non floride della famiglia e la sua situazione sanitaria, è stato affidato all’Istituto Sacro Cuore per l’infanzia abbandonata diretto in quel periodo da don Carapelli. È un bambino sfortunato, ad un anno e mezzo ha avuto le prime convulsioni che si sono accentuate dopo una caduta accidentale in cui è rimasto ferito alla testa, nella zona frontale destra. Per questo ha attacchi epilettici molto frequenti e sviluppa un carattere ribelle ed impulsivo che gli rende difficile andare d’accordo con gli altri e con i “superiori” in modo particolare. Al Sacro Cuore resiste solo per qualche anno. Litiga con tutti, compagni e maestri, sobilla spesso gli altri alla rivolta, una volta ferisce un insegnante tirandogli un calamaio in faccia. Così alla fine don Carapelli getta la spugna e lo manda via ed approda così al San Niccolò. Il primo ricovero comincia nell’agosto del 1902 quando Filippo ha da poco compiuto i 13 anni. Il suo comportamento non cambia al S. Niccolò e alla fine di ottobre la madre chiede che venga dimesso ed affidato in prova sotto la sua custodia. Ma dopo un anno circa scatta un altro ricovero in cui si mostra ancora più prepotente e altero, tanto da essere spesso legato, fintanto che la madre di nuovo si intenerisce e dopo poco più di un anno se lo riprende a casa.


Il terzo ricovero è dell’ottobre del 1906, Filippo ha ormai compiuto i 17 anni e sembra che la sua situazione sia cambiata. Il ragazzo ha deciso di tentare la carriera militare e per la prima volta sceglie volontariamente di ricoverarsi “per prova”, onde ottenere un certificato che gli servirà per il militare se attesterà la sua piena affidabilità. I medici in quel periodo sono quasi sorpresi dal miglioramento e dal cambio di atteggiamento tanto che dopo soli due mesi viene dimesso come “guarito” e con un certificato che lo attesta.
La situazione pare essersi indirizzata su una buona strada, ma invece dopo circa un anno (dicembre del 1907) Filippo è di nuovo ricoverato. È successo che ha tentato di arruolarsi, scegliendo di fare l’infermiere nell’ospedale militare di La Spezia. Qui ha lavorato bene per qualche mese ma al momento di ottenere la ferma definitiva che lo avrebbe impegnato per qualche anno, lo hanno mandato via. Sfumato il sogno di un lavoro, torna a Siena, non trova alcuna occupazione, passa le giornate bighellonando in giro e trattando spesso male la madre.
La sua situazione interiore pare a questo punto peggiorare e incattivirsi più di quanto non lo fosse già. Mal sopporta di stare ricoverato e nel luglio del 1908 Filippo aggredisce il dr. Stiatti durante la quotidiana visita in reparto. Lo colpisce con un ferro appuntito e per fortuna il colpo provoca solo una brutta escoriazione ma l’episodio ci dice che ormai il rapporto tra lui ed il manicomio è diventato difficilmente recuperabile. Inviato al Conolly, riesce ad evadere scalando il muretto della corticella di una cella e così, insieme ad un altro paziente, si dà alla fuga. Ancora una volta la famiglia si dà da fare e nel gennaio del 1909 il tribunale passa sopra all’evasione e lo affida ancora una volta alla custodia materna.

Un trattamento psichiatrico o psicoterapeutico di lungo corso ha migliori prospettive se, oltre alle giuste cure, si instaura tra medico e paziente quella che si definisce una buona “alleanza terapeutica”, alleanza che si costruisce sulla fiducia che il paziente ha verso il medico perché quello gli fa capire che comunque lui “è dalla sua parte”, impegnandosi a volte anche a difenderlo dalle ingerenze della famiglia o di altri soggetti che volessero condizionare il suo comportamento.
In questo caso assistiamo al completo fallimento di questo importante fattore di cura. L’alleanza, se mai si è instaurata, si è ormai decisamente infranta diventando l’esatto contrario, quasi una lotta senza esclusione di colpi. Filippo infatti accusa i medici di sottoporlo ad angherie e torture, i medici sono quasi costretti a guardarsi le spalle per non essere aggrediti. In questa contesa la famiglia (cosa non del tutto consueta) prende costantemente le parti del congiunto e ne sostiene le tesi, spingendosi a inviare un dossier al Ministero dell’Interno lamentandosi al riguardo delle vicende che capitavano dentro il San Niccolò. Tanto che i medici dell’Ospedale sostengono, a questo punto, che Filippo ha, con i suoi discorsi deliranti, inquinato anche le menti della madre e del fratello tanto da convincerli.
È comprensibile pertanto che il dott. Pisaneschi, insieme agli altri medici, abbia pensato che il suo aggressore potesse essere Filippo. Lo fa presente e il giovane viene convocato il giorno successivo al fatto in Questura ed interrogato. Gli trovano un coltello (ma che non è certo quello dell’aggressione visto che era rimasto nel corpo del Pisaneschi), diventa eccitato ed irascibile, conferma in maniera improvvida il suo piacere per il fatto che il medico sia stato colpito e così ne viene immediatamente disposto il ricovero all’OP. Con uno strattagemma viene convinto a salire su una carrozza che lo porterà in carcere (dove accetterebbe di andare), ma che invece poi si dirige al San Niccolò. Quando se ne accorge scoppia una nuova rissa ed i tre questurini che lo accompagnano riescono a malapena a trattenerlo.
Si può immaginare l’ambiente che trova, come venga accolto e come lui si disponga al nuovo ricovero. Viene spedito al Conolly con turni di sorveglianza strettissima (tanto da provocare la protesta degli infermieri che scrivono al Direttore D’Ormea per esserne sollevati) e lì tenuto in attesa di essere interrogato dal giudice. I giorni immediatamente successivi al ricovero sono tremendi. Filippo lacera i vestiti, il corredo del letto, il materasso. Viene tenuto nudo nella cella con le alghe (il materiale di cui veniva rivestita la cella per i furiosi), si rifiuta di mangiare e viene allora alimentato in maniera forzata. Il rapporto tra lui e l’istituzione è ormai un braccio di ferro, una sfida a chi vince sull’altro. Chiede di scrivere e comincia a riempire fogli e fogli con la sua scrittura fine e corretta. Scrive soprattutto al fratello maggiore Arturo, alla madre Carmela, ai giudici, ai medici. Spesso i suoi periodi sono un po’ inconcludenti ma mai danno l’idea di una persona confusa o disorientata. Sostiene contro tutto e tutti la sua tesi di totale innocenza rispetto al ferimento di Pisaneschi, ma rischia di essere travolto inizialmente dalla pressione della pubblica opinione che ormai ne ha fatto il più logico colpevole.
A questo punto la famiglia interviene di nuovo (è il 18 aprile, è passata una settimana dal ferimento) attraverso la stampa con una accorata lettera aperta in cui sostiene la tesi del loro figlio dicendo tra l’altro così: “sentiamo il dovere di protestare altamente contro l’operato di certi individui che agendo senza mente né cuore hanno scritto e parlato e continuano a scrivere ed a parlare (forse in buona fede) contro un povero innocente e per di più infelice”.
Calato un po’ il clamore intorno alla vicenda Filippo viene giudicato prima colpevole e dunque trasferito nell’ottobre del 1910 a Montelupo Fiorentino con l’accusa di tentato omicidio, ma nel giugno dell’anno successivo la corte di Appello di Firenze lo proscioglierà da ogni accusa penale e ne ordinerà comunque il ricovero in un normale manicomio.
È per la verità già cominciato una sorta di balletto tra vari manicomi della Toscana dopo che Siena dichiara di non poterlo più accogliere. Nell’ottobre del 1913 si trova a San Salvi. Ma nessuno lo vuole, Siena sostiene che ormai l’atmosfera che si è creata con lui e con la famiglia è contraria ad ogni possibilità di cura. Dopo Firenze si prova con Arezzo e Volterra. Queste ultime amministrazioni, ad iniziali atteggiamenti di apertura, forse dopo essersi meglio informati dei fatti, fanno seguire gentilissimi rifiuti e chiudono ogni spazio adducendo motivi burocratici o di pagamento della retta ecc.
Filippo è diventato uno di quei casi complicati e difficili che nessuno vuole avere tra i piedi.
Non sono ancora riuscito a sapere com’è finito il caso, se la verità relativa al caso Pisaneschi è stata accertata e in che modo Filippo sia uscito dalla vicenda. Devo però dire, comunque sia andata, di essere colpito dalla compattezza della famiglia intorno ad un figlio così difficile. Ho personalmente visto, in situazioni anche di minor gravità, crearsi il vuoto assoluto intorno al paziente anche da parte dei genitori. Tutto questo mi rende ancor più curioso di sapere come siano andate le cose per Filippo, chissà…
Per concludere due considerazioni.
La prima: questa storia ha un sapore in qualche modo moderno perché sembra precorrere l’era di quelle controversie legal-sanitarie che oggi sono frequenti e comuni, ma che nel 1910 erano piuttosto insolite.
La seconda: è difficile, leggendo il caso, non ritenere sconfitte le istanze di cura che, magari unite a quelle di custodia, dovevano essere per forza riconosciute all’istituzione manicomio. In quegli anni il San Niccolò raggiunse il numero massimo di ricoverati e forse l’atmosfera interna non si giovò di quell’affollamento e contribuì a rendere spesso, invece che alleati, quasi nemici medici e malati.
Forse da lì cominciò un certo degrado.

Andrea Friscelli