Le storie del manicomio: Adamo ed Eva

SALVARE LA MEMORIA STORICA DELL’UNICO PANOPTICON BENTHAMIANO ANCORA ESISTENTE IN ITALIA (L’EDIFICIO DEL REPARTO CONOLLY NELL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO DI SAN NICCOLÒ, A SIENA): SIENANEWS SOSTIENE LA CAUSA E FA CONOSCERE AI PROPRI LETTORI LA STORIA E LE OMBRE DI UN PEZZO DI STORIA DELLA CITTÀ

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La storia di Adamo, un colono a cui viene diagnosticato uno stato di mania acuta, e della sua Eva.

Comincio con il pezzo di oggi a raccontare, come promesso, le storie dei pazienti del manicomio e della vita che lì dentro si viveva. L’aneddotica manicomiale è un terreno scivoloso, uno stretto crinale sul quale camminare non è semplice. Il rischio è di cadere da un lato nella barzelletta che rende tutto distante e ridicolo, dall’altro nella esasperazione di certe tesi precostituite. Non so se riuscirò nell’impresa che mi riprometto: essere equilibrato e dare al lettore gli strumenti per farsi una sua idea.

La storia che voglio raccontare oggi (da Martina Starnini, “Follie separate”, Pisa University Press- 2014), ha bisogno di qualche premessa. Intanto è una storia semplice, non drammatica, finita, per quello che sappiamo, senza tragedie e neppure con una di quelle degenze a vita che tanto erano consuete, ma con un ritorno in famiglia, sia pure un po’ ridimensionato. Mi ha colpito proprio per l’essenzialità dei meccanismi in gioco, per lo scherzo, si potrebbe dire, che il destino gioca al protagonista attraverso un piccolo particolare che invece diventa poi, come vedremo, gigantesco.
Veniamo alle premesse più generali nelle quali la storia di Adamo si inscrive.

mani1La prima riguarda l’economia agricola fondata sulla mezzadria che ebbe un particolare sviluppo nel Centro Italia. È nella seconda metà dell’Ottocento che comincia la crisi di questo sistema, il quale giungerà poi alla sua naturale fine diversi decenni dopo. Vari studi hanno dimostrato come la funzione sociale del Manicomio di San Niccolò, nel suo momento più florido, sia stata quella di diventare una sorta di deposito degli scarti che quel sistema produceva sempre in maggior quantità. Allora il fratello “pinzo”, il disabile, la nuova sposa con poca voglia di lavorare o l’anziano che non poteva più reggere il ritmo di lavoro precedente, per citare solo alcune delle più frequenti tipologie, andavano talvolta incontro, in famiglia, ad una esclusione che aveva nel ricovero in manicomio il sigillo transitorio o definitivo.

Certo è naturale che i più deboli, messi in questa condizione di sottile ma crescente ostracismo familiare, finissero per sviluppare tematiche depressive e diventare “lipemaniaci”, come si diceva allora, o magari andassero incontro a periodi di eccitazione o entrassero comunque in un’area patologica in cui era difficile stabilire quanto il malessere derivasse da una patologia endogena e quanto da un ambiente familiare frustrante. La tollerabilità dei comportamenti folli era misurata, e non solo nelle famiglie contadine, prima di tutto sull’attività o inattività del familiare. L’inadempienza al lavoro era il primo campanello d’allarme, nonché un problema evidentemente serio sia per le famiglie che già vivevano in situazioni di povertà, sia per quelle più abbienti. Così tutti coloro che non riuscivano più ad assolvere ai loro compiti lavorativi, trovavano una loro facile collocazione nell’ospedale psichiatrico dove finivano spesso per vivere l’intera vita in una sorta di universo parallelo.

Uno specifico aspetto di questa crisi (ecco la seconda premessa di questa storia) consisteva, così sostiene Starnini (ibidem), nell’aumento del celibato, una tendenza generale toscana e del centro Italia. Il tipo di famiglia mezzadrile produceva una serie di dinamiche tipiche come, per esempio, un’età al matrimonio piuttosto elevata. Le organizzazioni familiari, infatti, dal momento che le spose prendevano residenza in casa del marito, utilizzavano il nubilato e, in misura maggiore, il celibato dei propri componenti per difendersi dall’eccessiva presenza di unità improduttive all’interno della famiglia. Il meccanismo del “capocciato”, che spettava a un maschio della famiglia, prevedeva che solo i primogeniti avessero la facoltà di decidere liberamente se ammogliarsi e prendere le redini della famiglia/azienda. Questo faceva sì che nelle famiglie con più fratelli, qualcuno finisse per rimanere celibe, o dovesse in ogni caso aspettare il proprio turno al matrimonio.
Di conseguenza il “capoccia” era quello che decideva su tutto: matrimoni, nascite, lavoro. Il matrimonio di un fratello era un momento importante, ed il capoccia aveva diritto a dire l’ultima parola, dando o negando la sua approvazione. Lo faceva probabilmente attraverso il giudizio sulle capacità lavorative della futura sposa, prevedendo magari se la famiglia si sarebbe arricchita di un nuovo elemento produttivo o solo di un’altra bocca da sfamare.

E così la giovane età era quella durante la quale le speranze riposte in una storia d’amore fra ragazzi o nella combinazione di un buon matrimonio potevano andare deluse, sia negli uomini che nelle donne. E queste delusioni andavano, poi, in qualche modo smaltite.

Detto questo ecco il racconto della nostra storia: siamo nel 1880 ed arriva al San Niccolò un uomo, colono, celibe di 40 anni. Si chiama Adamo e gli viene diagnosticato uno stato di mania acuta. Non riesce a star fermo, parla in continuazione, spesso in maniera confusa, è insonne, mangia poco e si mostra recalcitrante a qualunque approccio terapeutico. Il primo ricovero dura circa due anni e viene dimesso guarito. Ma già nel 1883, viene di nuovo internato. Finalmente viene riportato in cartella qualcosa di più sulla sua storia (si sono persi due, tre anni di tempo per capire meglio?) rispetto a quello che aveva motivato il primo ricovero. Confessa che in quel tempo aveva avuto un dispiacere in famiglia, perché il fratello capoccia si era opposto fermamente al suo matrimonio. E con chi Adamo si voleva sposare? Con Eva, la sua Eva, una giovane con la quale – dice Adamo – avrei riformato la prima coppia della terra.

Questo viene interpretato dai medici, con qualche ragione, come un discorso malato, indice di una grandiosità innaturale, priva di qualsiasi fondamento. Con parole scientifiche più attuali si sarebbe detto che Adamo era dotato di un “sé grandioso” che probabilmente svolgeva la funzione di proteggere il suo narcisismo ferito dalla traumatica presa di coscienza della sua inferiorità in famiglia, una inferiorità di ruolo ma forse anche di fatto. Si può ipotizzare che il dover sottoporre i suoi progetti al giudizio del capo famiglia, il ricevere dal fratello un parere negativo abbia generato dentro di lui scontento e rabbia. Queste emozioni, con ogni probabilità, fornivano l’alibi per un disimpegno dalle attività lavorative e tutto ciò peggiorava ulteriormente il modo di essere considerato nel contesto familiare. Il fatto che la sua patologia, almeno da quello che si può evincere dalla cartella, avesse preso la strada della mania e non quella della depressione, accentua ancora una volta il rifiuto, la ribellione a quella presa di coscienza. Adamo attua così una sorta di ribaltamento delle emozioni, rovesciando la depressione, forse più comprensibile, nel suo esatto opposto, ovvero in uno scoppio maniacale di vitalità falsa, senza scopo e senza limiti.

Naturalmente se tutta la storia viene “letta” in tal modo, è chiaro che la guarigione corrisponde al riprendere buoni sentimenti verso la famiglia. Quando, come si legge nel diario clinico, afferma di non sentire più alcun rancore verso il fratello capoccia, è considerato guarito. Quelle strane idee di palingenesi attraverso il matrimonio sono finalmente abbandonate e nessuno più se ne occupa. Ma quando un medico più scrupoloso, parlando con i parenti, indaga e chiede notizie più precise sui primi momenti del suo disturbo, trova la conferma che la storia negata ad Adamo riguardava davvero una donna di nome Eva. Insomma, quello che pareva il sintomo di un pensiero delirante, in realtà, era la pura e semplice verità.

Come sempre, o come spesso, capita l’ascolto ci porta più vicino alla verità.

Ad Adamo fu impedito di unirsi alla donna che aveva scelto e che si chiamava Eva, questo è un fatto. Poi è chiaro che lui innestò su questa vicenda la tendenza a sragionare e quel rifiuto del fratello capoccia diventò, nel tempo in cui interiormente lavorò la delusione, la negazione, l’ostacolo a che lui rifondasse l’umanità intera.

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Ci si potrebbe chiedere cosa sarebbe successo se Adamo si fosse invaghito, per esempio, di una Pia invece che di Eva? È possibile insomma che il destino, scherzando con la sua vita, gli abbia giocato un tiro, come dire, semantico, indirizzando così le sue idee deliranti? Oppure si deve pensare che abbia scelto quella donna proprio perché, portando quel nome, dava credito alle sue idee grandiose? E qual è stato, più nel dettaglio, il ruolo del fratello capoccia?

Tante altre interessanti domande vengono alla mente anche se decisamente retoriche vista l’impossibilità di arrivare a risposte esaurienti. Per esempio, ci si può chiedere dov’è o di chi è, in questo caso, la responsabilità della malattia?

Cercando una risposta equilibrata, si potrebbe dire che questa risiede parzialmente in una struttura familiare abbastanza rigida. Con altrettanta certezza, credo però che si possa dire che anche Adamo, con la sua mente fragile e fantasiosa, ci metta del suo.

Certo è che Adamo passa diversi anni in manicomio e, prima di tornare alla sua vita, probabilmente ricava da tutta la vicenda che non è tanto salutare per lui esprimere volontà, emozioni e progetti. Meglio abituarsi ad una vita a scartamento ridotto, al suo ruolo di “pinzo” un po’ strambo, rispettando il quale può stare in famiglia, altrimenti per lui rimarrà sempre il rischio del manicomio.

Andrea Friscelli