La strada della psicoanalisi continua: gli sviluppi recenti

L’ultima puntata di questa breve passeggiata tra alcuni dei padri della psicoanalisi (quanti ne ho trascurati!), come promesso, sarà dedicata ai recenti sviluppi delle Neuroscienze che in alcune ricerche sembrano confermare, con il sostegno strumentale, talune delle intuizioni di quei grandi studiosi. Vi ho, sommariamente, parlato di autori che oltre ad essere stati tutti grandi terapeuti, potrebbero essere anche descritti come filosofi che hanno proposto la loro visione dell’uomo e della mente.

Freud vede l’uomo tormentato dalle spinte pulsionali che nascono prevalentemente dalla sua parte inconscia e istintuale, costretto, per diventare civile, a reprimersi ritrovandosi solo, profondamente solo in questa battaglia. La Klein comincia invece a intuire che certi rapporti con le figure significative nei primi anni di vita condizionano lo sviluppo mentale con le loro ombre proiettate nel mondo interno.

Bion ha una visione più larga dell’uomo, studiandolo anche come appartenente ad un gruppo sociale e suggerendo che le interazioni tra umani sono sempre più importanti. Infine Kohut fa ulteriori passi sulla strada di una visione interpersonale della natura dell’uomo, come se fosse impossibile o quasi astrarre il singolo individuo dalla sua rete di rapporti sociali.

Qualcosa di simile dice anche un autore di cui non ho parlato, Donald Winnicott, che è stato prima pediatra e poi psicoanalista infantile. Lui infatti diceva che è impossibile capire un bambino se non vedendolo con la sua mamma. Questo modo di vedere il piccolo umano all’interno di una diade inscindibile sottolinea ancora l’importanza della socialità e dell’accudimento nello sviluppo dell’uomo.
Nella visione psicoanalitica che gli autori di cui ho parlato hanno contribuito a disegnare, si intravede un processo. L’uomo, interpretato all’inizio in una visione mono personale, è via via diventato sempre di più un essere sociale che si può curare solo comprendendo il milieu interpersonale che lo avvolge, che lo danna o lo fa stare bene. Questi concetti hanno anche cambiato profondamente lo stile terapeutico in voga. Se all’inizio prevaleva un atteggiamento verso il paziente improntato all’osservazione di un fenomeno distaccato più possibile dal terapeuta che così pensava di salvaguardare la sua scientificità, adesso quel rapporto è sempre più simile ad una collaborazione quasi paritaria in uno spazio interpersonale che coinvolge in maniera profonda e con tutto sé stesso oltre al paziente anche il terapeuta.
Ma sono convinto che i più positivisti e scettici tra i lettori, quelli che hanno bisogno di fatti concreti misurabili e percepibili e che hanno giudicato queste riflessioni come parole, magari interessanti, ma sempre parole, avrebbero bisogno di qualche prova più concreta, magari proveniente da scienze meno relativistiche della psicoanalisi. In effetti la psicoanalisi attuale guarda non solo alle Neuroscienze ma anche a discipline come l’etologia, la teoria dell’attaccamento entrambe con statuti scientifici più oggettivabili.
Ed ecco allora che oggi provo a dare loro e naturalmente anche a tutti gli altri qualche rassicurazione in più, parlando di due sperimentazioni scientifiche fatte negli ultimi anni; siamo, infatti, già nel nuovo millennio. Tra l’altro, entrambe scaturiscono da studi di scienziati italiani.
Parlo della memoria implicita e dei neuroni specchio.
Il problema della memoria è stato oggetto di molti e ripetuti studi che hanno stabilito una partizione e descrizione di innumerevoli tipi di memoria, identificandone zone cerebrali dedicate e meccanismi di funzionamento. Solo per citarne alcune fra le tante, c’è quella descrittiva e biografica che permette di ricordarsi chi siamo, quella operativa o procedurale che permette, per esempio, di guidare un’auto o lavorare con il computer, ripetendo e ricordando procedure e manovre, queste memorie sono “esplicite”. E poi Mauro Mancia (nella foto, sotto), fisiologo e psicoanalista milanese, ha certificato la memoria implicita. Secondo lui tutto quello che ci succede nei primi due anni di vita non va perduto ma immesso in una sorta di deposito non più accessibile alla coscienza, ma in grado comunque di condizionare la nostra vita mentale soprattutto con contenuti affettivi. Lo stesso Mancia ha ipotizzato che tale memoria coincida di fatto con l’inconscio freudiano. Specifica che una parte di tale memoria può essere ancora sottratta alla rimozione, ma forse la parte più consistente rimane “implicita” cioè non più contattabile, ma in qualche modo ancora agente. Il vecchio Maestro aveva quindi visto giusto nell’ipotizzare che una parte di noi ci rimane sconosciuta. Oggi in più sappiamo di dove ci proviene, dov’è collocata e che raccoglie le nostre esperienze primitive.

Ancora più interessante la scoperta dei neuroni specchio che vale la pena di raccontare più estesamente. Nata come capita spesso da una casualità. In tal caso nell’istituto di Neuroscienze di Parma, diretto da Giacomo Rizzolatti, si stava studiando una porzione di corteccia cerebrale del macaco, in particolare la zona prefrontale cui venivano attribuite fino ad allora funzioni prevalentemente motorie.

Le scimmie venivano studiate con metodi non cruenti che prevedevano TAC, EEG, elettrodi cerebrali, ecc. Alla scimmia veniva offerto un pezzo di banana, lei muoveva la mano per prenderla e questo attivava la scarica del neurone interessato a quel movimento, e fin qui tutto chiaro. Ma ci si accorse che la scarica neuronale avveniva anche prima del movimento, quando la scimmia osservava il gesto preparatorio di tagliare il frutto. Perché la scimmia aveva scariche elettriche nella stessa zona cerebrale, pur non movendo un muscolo? Si cominciò così a capire che quell’area cerebrale si attivava non solo motoriamente, ma anche solo per la visione del movimento del ricercatore. La scimmia insomma era in grado di capire quello che l’altro stava per fare e così attivava dentro il suo cervello lo stesso schema motorio anche senza muoversi.

Ecco il seme della comprensione empatica da tanti autori invocata! Esiste cioè un’area cerebrale che entra in azione in modo imitativo alla vista di comportamenti e che permette di prevederli, impararli, ripeterli. Gli studi naturalmente sono andati avanti e si è potuto vedere che un’area simile è presente anche nell’uomo che appare, così come diverse specie animali, naturalmente equipaggiato di una zona cerebrale che favorisce la socialità.
Se ci troviamo di fronte a un volto triste oppure scorgiamo l’indizio di un sorriso, se un nostro ospite sta per prendere una tazzina di caffè e sorbire la bevanda, ecco che una catena di neuroni si attiva nel nostro cervello mettendoci nella condizione di imitare nel nostro corpo e nella nostra mente l’emozione, la sensazione o l’atto in corso. L’imitazione di quell’emozione, di quella sensazione, di quell’atto consentono l’esatta comprensione dello stato d’animo dell’altro essere umano e quindi delle sue intenzioni. È come se il nostro cervello creasse dentro di sé una copia di quella persona, allo scopo di capire il suo pensiero e di entrare in piena sintonia con lei.
La scoperta di questi neuroni dimostra – se ancora ve ne fosse bisogno – l’inclinazione verso una natura sociale della nostra specie.
L’empatia, dunque, è alla base dell’intera vita sociale: rende solide e proficue le relazioni di accudimento, fa in modo che rapporti affettivi attecchiscano e creino coppie, famiglie, amicizie, infine rende possibili le più complesse relazioni che si hanno col mondo storico-sociale in quanto individui di un certo gruppo e cittadini di una nazione.
Forse questi studi aprono la strada alla comprensione del fenomeno dell’autismo che potrebbe stare in un difetto di quei neuroni specchio tanto importanti per lo sviluppo della nostra socialità.

Naturalmente, come avviene per ogni scoperta scientifica, ci sono stati anche coloro che hanno cercato di minimizzare e di frenare gli entusiasmi “sociali” che i neuroni specchio hanno innescato. Certo è, a mio parere, che la visione della natura dell’uomo come essere sociale esce confortata dal riconoscimento di aree cerebrali opportunamente dedicate a favorire questo sviluppo. Ma è evidente che probabilmente tutto questo non basta a garantire un futuro di pace e serenità, anzi sono molto numerosi i fatti di cronaca che ci fanno pensare che gli uomini stiano spesso ignorando i messaggi dei loro neuroni specchio.
Eppure, se l’anatomia non è un’opinione, tutti ne dovremmo essere forniti …

Andrea Friscelli