Firenze intitola una piazza al senese che salvò gli archivi dall’alluvione

Così un pezzo di Firenze avrà sempre a memoria Siena e un senese che nel 1966 non ebbe paura dell’alluvione: Giulio Prunai, che nacque a Siena nel 1906 da famiglia impegnata nel volontariato e nel mutuo soccorso, fu infatti l’uomo che ebbe un ruolo essenziale nel salvataggio di numerosi archivi pubblici e privati. Fu grazie al suo lavoro che furono recuperati e salvati numerosi archivi anche sconosciuti. Prunai, inoltre, pensò a un metodo nuovo per la tutela del materiale e fu questa la svolta che consentì di salvaguardare gli archivi.

Da giovedì 10 maggio, l’area toponomastica con accessi da Viale della Giovine Italia e da Viale Giovanni Amendola (lato Archivio di Stato), diventerà quindi piazza Giulio Prunai.

Due anni fa Firenze rese onore alla passione per la storia di Giulio Prunai, intitolandogli la biblioteca della Soprintendenza Archivistica e Bibliografica. Una passione, la sua, che dimostrò concretamente nell’azione messa in campo, con dedizione, in occasione dell’alluvione del 1966.

Giulio Prunai fu infatti soprintendente archivistico della Toscana dal 1954 al 1971.

duilio

Giulio Prunai

 

Giuseppe Prunai

Giuseppe Prunai

Nell’occasione, fu suo figlio Giuseppe a raccontarci la storia che oggi riproponiamo ai nostri lettori: Giuseppe racconta il grande amore del padre per la memoria storica, che non abbandonò nemmeno in un campo di prigionia nazista.

4 novembre 1966: l’alluvione di Firenze. Cosa fece suo padre?

«Mi ricordo che con mio padre andammo a vedere la piena dall’alto di piazzale Michelangelo. Guardammo verso gli Uffizi, perché all’epoca l’Archivio di Stato si trovava lì, al primo e al secondo piano. Andammo poi a controllare la situazione direttamente. Provammo a passare dal corridoio vasariano ma non fu possibile. Il 5 novembre poté andare in ufficio e riuscì a mandare un telegramma al Ministero degli Interni, da cui all’epoca dipendevano gli archivi di Stato, in cui descrisse la situazione ed espresse preoccupazione per lo stato dei documenti privati delle antiche famiglie gentilizie di Firenze. Appena fu possibile muoversi la Questura gli fornì una jeep con l’autista e cominciò così a fare un giro delle campagne per cercare gli archivi sparsi sul territorio. I faldoni recuperati, che in gergo si chiamano “filze”, furono subito interfogliati con carta assorbente per asciugarli. Visto che l’asciugatura procedeva a rilento, furono costretti a portare i documenti in un essiccatoio per tabacchi del Valdarno. Via via che i faldoni si asciugavano venivano restaurati in parte all’Opificio delle pietre dure a Firenze e in parte a Roma. Una volta conclusasi la fase del recupero tutto il materiale venne riconsegnato agli enti o ai privati che ne erano proprietari. Il lavoro in pratica durò più di un anno».

Quell’alluvione fu uno spartiacque positivo per la conservazione degli archivi?

«Sì, perché si capì la fragilità del territorio italiano. In seguito a quel 4 novembre furono fatte molte azioni concrete, come, ad esempio, l’acquisto di scaffali metallici da parte dello Stato per gli Enti, più sicuri di quelli in legno per una questione di temperatura e di resistenza all’acqua.

Suo padre è stato in un campo di concentramento nazista. Che ricordo ne aveva conservato?

«Mio padre, un ufficiale di Marina di complemento, fu inviato in una base navale a Tolone. L’8 settembre 1943, giorno del proclama Badoglio in cui si annunciava l’armistizio con gli Alleati, fu catturato dai tedeschi e venne inviato prima in Polonia, poi in Olanda e infine nel campo di prigionia di Wietzendorf in Germania. Visto che il Reich non aveva riconosciuto il cosiddetto “Regno del Sud” i militari italiani catturati non poterono essere assistiti nemmeno dalla Croce Rossa. Mangiavano pane fatto con la segatura e una “sbobba” fatto con patate, bucce delle stesse e terra. La censura tedesca gli permise di tenersi i fogli della storia dell’Università di Siena che aveva iniziato a scrivere prima di essere richiamato nell’esercito. Su queste pagine, nelle interlinee, scrisse un diario. Mio padre sopravvisse a questo dramma grazie al fatto che non perse mai il suo humour. Lui da prigioniero non si disperò mai e quel diario fu la sua reazione. Una volta mi disse che in quella situazione si sentiva un poco come Giovanni Antonio Pecci e Girolamo Gigli, due grandi storici senesi. Con lo stesso spirito reagì all’alluvione».

Quale furono i rapporti di suo padre con Siena?

«Appena poteva prendeva la Sita, non guidava la macchina, e tornava a Siena dove molti amici, soprattutto tra i colleghi archivisti. Non era un gran contradaiolo dell’Istrice e si limitava  a dare un contributo monetario. Per il Palio però si trasformava e di imprecazioni ne diceva in quantità».