E che non sia il Giorno della Memoria corta

Mentre scriviamo questa riflessione, centinaia di studenti della Toscana assistono alle commemorazioni dopo aver varcato il cancello di Auschwitz e poi di Birkenau. Questa è la decima edizione del Treno della Memoria che la Regione Toscana organizza per le scuole regionali, per tenere viva appunto la memoria, la storia, anche nei ragazzi che stanno per diventare adulti. Un’ottima iniziativa, posso dirlo perché l’ho vissuta in prima persona. Un’iniziativa che dovrebbe estendersi in qualche modo e con altri strumenti anche ad altri ambìti perché purtroppo la Giornata della Memoria del 27 gennaio appare ormai come qualcosa che, appunto, rimane chiusa a questo giorno. Se così non fosse, se la memoria non fosse a volte, purtroppo, così corta, molto dell’orrore vissuto dagli uomini, dalle donne dai bambini di tutto il mondo nel periodo della guerra, non si ripeterebbe.

Perché spesso, negli ultimi tempi, la percezione è proprio quella, invece, di un percorso intrapreso verso un orrore analogo a quello di oltre settant’anni fa. Sembra che la memoria sia proprio corta. Non sono passati mille anni, sono passati nonni o al massimo bisnonni. E’ tutto ancora così vicino e palpabile e per fortuna ancora da ascoltare, attraverso la voce di chi lo ha vissuto.

“Auschwitz – Solo quando nel mondo a tutti gli uomini sarà riconosciuta la dignità umana, solo allora potrete dimenticarci”. Parole fredde come il marmo su cui sono scolpite. Ecco perché non possiamo dimenticare. Perché ad oggi siamo ben lontani da un mondo dove tutti gli uomini abbiano uguale dignità. Che sia una guerra, un lavoro che non c’è, una casa distrutta dal terremoto o dalla neve, un’emarginazione, una qualsiasi situazione di vita che è sempre troppo diversa da quello che ci ostentiamo a voler mostrare per essere ‘politicamente corretti’.

 

Poco si può ancora scrivere che non sia ancora stato scritto: prima ci ha pensato la cronaca, poi la storia, poi la memoria. Il tempo passa e i fatti ci raccontano nuove pagine e nuove guerre e nuove crisi. E nuove memorie, ancora. C’è solo un modo per capire fino in fondo, per noi generazioni fortunate che non abbiamo vissuto gli orrori ai quali sono stati costretti i nostri nonni, cosa può essere stato. Cosa può aver significato anche quel 27 gennaio del 1945, quando l’Armata Rossa varcò i cancelli di Auschwitz liberando i superstiti. L’unico modo è andarci ed il Treno della Memoria, soprattutto per i ragazzi, è per questo una buona iniziativa.

Nessun documento, nessun film, nessun libro e nemmeno nessuno sguardo o voce possono, seppure crudi e terribili e densi di pathos, raccontare meglio dell’esperienza. E pensare che ero una di quelle bambine ipersensibili, nipote di partigiani e allieva di una grande insegnante alle elementari (la maestra Grazia Toti che non finirò mai di ringraziare), che aveva sempre sentito raccontare tante storie orribili e che aveva sempre studiato con attenzione e letto e anche scritto poesie sugli orrori della guerra. Eppure niente come quel viaggio del gennaio 2003 mi avrebbe fatto capire davvero.

A gennaio in Polonia fa parecchio freddo. E c’è la neve alta, il cielo plumbeo che pare minacciare sempre pioggia e invece casomai continua a nevicare. Sembra un muro. Fermo, carico, i corvi neri che passano, punteggiando di tanto in tanto un’atmosfera pesante. Ma anche il loro volo si fa peso e rende inevitabile il pensiero a ciò che è successo oltre settant’anni fa.

Sono andata ad Auschwitz che a scuola non andavo già più, quando Gianni Tiberi, allora capo servizio de La Nazione mi mandò per fare la cronaca del viaggio sul Treno della memoria, forse il primo organizzato dalla Regione.

Quattro giorni tra Cracovia, il ghetto e i campi di sterminio, un viaggio fatto in treno insieme ai ragazzi delle scuole superiori. E in treno si ha maggiore percezione del tempo e delle difficoltà affrontate dai deportati che arrivavano su quei binari fino a Birkenau. Il resto non merita tanto un racconto di cronaca – ormai conosciuto da tutto il mondo e sviscerato in ogni modo – quanto di emotività. Varcare il cancello del campo di Auschwitz significa entrare in una dimensione che comunque ci è estranea, quella che hanno visto le milioni di persone che poi lì hanno trovato la morte. Un quartiere di ‘villette a schiera’, per semplificare la descrizione. Un luogo apparentemente accogliente. La scritta sul cancello invita a compiere il proprio dovere con entusiasmo. Perché ‘il lavoro rende liberi’. Vero, pensiamoci oggi che il lavoro non c’è. Ecco allora il rischio che questa situazione diventi l’anticamera della mancanza di libertà.

L’ingresso in quello che ormai da anni è il museo della memoria ti ospita per proiettarti dritto nell’orrore. Alzi la mano chi non ha mai visto foto o documentari con le immagini dei capelli, delle valigie, delle scarpe e degli occhiali. Considerando la grandezza di quelle teche si ha l’idea del numero di persone. Ma sono i corridoi, le foto di ogni deportato che veniva registrato e che oggi ti guarda con la stessa paura da quelle immagini, a darti un cazzotto nello stomaco. Attraversi quei corridoi ed è come sentire il respiro ansioso di tutta quella gente che ti chiede, sottovoce, di guardare con attenzione, di capire, di non permettere più tanto orrore. Non so se avete mai provato quella pesantezza, quella sensazione di essere osservato da qualcuno che però non c’è. Ecco, lì si prova. Il carico di energia è così forte da schiacciarti.

Il resto, un susseguirsi di celle, camerate dove si dormiva accalcati sulla pietra (nonostante la temperatura sotto zero dei lunghi inverni), forni, residui delle bombole di ziklon B (il gas letale) utilizzate dai tedeschi, le rovine delle camere a gas che le truppe naziste fecero saltare prima dell’arrivo dell’Armata rossa, per non lasciare tracce del loro progetto di sterminio. Poi il muro dove avvenivano le fucilazioni, il campo di lavoro, l’erba ricresciuta sul filo spinato come la vita che sempre rinasce, sempre.

Infine la stanza dove Josef Mengele eseguiva esperimenti sui bambini. E lì dentro non si resiste. Lì il dolore è ancora così presente che sembra di sentirli piangere e urlare, quei bimbi. Più delle valigie, più dei capelli e degli occhiali, ha potuto il nulla, una stanza ormai quasi vuota. Eppure quei bambini forse sono ancora lì con il loro pianto rotto, a chiamare le loro mamme, a chiedere aiuto, a morire di follia. Proprio come i bambini che muoiono oggi per le bombe e la violenza che dilaga oltre a un campo di concentramento. Quei bambini ci sono, e si fanno ancora sentire. Forse più degli adulti perché i bambini hanno il pianto forte.
Oggi, a distanza di 14 anni da quel viaggio, mi porto dentro ancora quella sofferenza che nessun libro e nessun documentario, nessun racconto mi aveva dato. Oggi più che mai vorrei che non si identificasse nell’Olocausto solo lo sterminio degli ebrei ma l’orrore di ogni guerra.

La memoria ci rende liberi, come la conoscenza. Si deve conoscere, si deve sapere. Andate fino ad Auschwitz. Solo così, forse non si ripeteranno gli stessi orrori ed errori. Perché i milioni di ebrei, i bambini, oggi sono altre milioni di persone e di bambini che subiscono la guerra, sono occhi che hanno la stessa paura o sguardi con la stessa follia. Credo davvero che la memoria ci renda liberi, non solo per gli ebrei ma anche per i curdi, i siriani, i turchi, gli italiani, i russi, gli americani, i francesi, gli afghani, i palestinesi, i messicani, per tutti quelli che ieri hanno subito la guerra, per chi la vive oggi. Che siano il nazismo, il comunismo, la deviazione della shari’a, le politiche che ci rendono sempre più poveri, la memoria serva a renderci liberi da tutto questo.

Che la conoscenza delle radici ci aiuti a rispettarle e a custodirle.

E un grazie enorme va a quanti ci aiutano a non dimenticare: i nonni, i genitori, gli insegnanti a scuola.

Katiuscia Vaselli