Stress test sulle banche italiane: una bella sorpresa che potrebbe generare una brutta sorpresa

Stress test sulle banche italiane: una bella sorpresa che potrebbe generare una brutta sorpresa

Era il 2016 quando gli esiti degli stress test evidenziavano una capacità di tenuta agli shock macroeconomici per il sistema bancario europeo non più granitica, puntando il faro anche sull’Italia. Un cambio di paradigma, rispetto alla percezione generale di solidità e di reale rischio sistemico. La prima domanda logica, rispetto allo scenario di ieri, è cosa sia cambiato sulla salute generale dell’economia riferita alle banche e, di conseguenza, alle imprese. 

Gli esiti degli stress test da poco pubblicati hanno individuato tra i rischi di maggior importanza, da fine 2017 a fine 2020, stressati, appunto, le preoccupazioni sulla sostenibilità del debito pubblico e privato e i rischi di liquidità nel settore finanziario non bancario (con potenziali ricadute sul più ampio sistema finanziario). Metto in evidenza quelli che, nello scenario peggiore simulato dai test, insieme a un aumento del rischio di mercato complessivo, minore redditività bancaria e bassa crescita, riflettono l’ipotesi di una profonda crisi macroeconomica mondiale, di durata compresa tra due e tre anni, combinando rischio paese e rischio bancario da shock.

Il giudizio emerso in sintesi è questo: le banche europee vigilate dalla BCE, 33 su 48 totali, hanno oggi più resilienza di fronte agli shock finanziari e, anche se il capitale si riduce di più rispetto al 2016, sono dotate di maggiori riserve di capitale e di una migliore qualità degli attivi preesistenti, tanto che Il coefficiente di CET1 finale medio nello scenario avverso aumenta al 9,9%, dall’8,8% del 2016. 

Quindi, le politiche attuate, hanno funzionato in media, in particolare quella della riduzione dei crediti deteriorati nei bilanci, considerati come maggiori responsabili della tenuta complessiva del sistema bancario. Rimangono, però, alcune banche singole, più vulnerabili di altre.

La sorpresa positiva è che non sono quelle italiane, ma quelle altisonanti tedesche, inglesi e anche una, tra tutte, francese.

La mia riflessione è che di fronte a uno scenario molto grave colossi come Deutsche Bank, da un coefficiente CET1 registrato del 14,65% scenderebbero all’8,14%, valore ancora distante dal 5,5% considerato livello minimo di salute patrimoniale, ma che evidenzia una discesa importante. Non c’è traccia di quali richieste saranno fatte da parte delle autorità di vigilanza, in ottica prudenziale, dai meno virtuosi. 

Inoltre, il nostro sistema bancario nonostante sia più solido e risultato promosso agli stress test del 2018, nonostante abbia ridotto la quota di NPL, da alcune settimane subisce il riflesso negativo dato dall’avere in pancia Titoli di Stato italiani, con l’effetto finale di peggiorare i dati di bilancio.

Uno studio di Equita Sim pubblicato da Il Sole 24 ore, aveva stimato a giugno di quest’anno, che un aumento strutturale dello spread tra BTP e Bund di 100 punti base comporta un’erosione di 37 punti base nel capitale CET1. Quindi, le banche per non erodere il loro capitale, con l’attuale situazione di alta volatilità, non hanno convenienza ad acquistare BTP. D’altra parte per calmierare i mercati potrebbe intervenire la BCE e comprare i Titolo di Stato in questione. Cosa che ha fatto attivando il programma di Quantitative Easing che terminerà a gennaio 2019. Ricordiamo, però, che la BCE non può acquistarli finché serve nel mercato secondario, a meno che non attivi il cosiddetto scudo anti-spread. 

Ma per attivarlo l’Italia dovrebbe farne richiesta, dando in cambio un concreto piano di risanamento dei conti, tagliando la spesa pubblica o aumentando le tasse. 

Maria Luisa Visione