Lavorare al tempo dei voucher

Lavorare al tempo dei voucher

Le finalità delle leggi sono sempre nobili. Nel 2003, il decreto n. 276 dettava una disciplina di apertura verso nuove forme di lavoro, con lo scopo di introdurre strumenti utili a garantire trasparenza ed efficienza e a migliorare l’inserimento di disoccupati e di lavoratori in cerca di prima occupazione. Attenzione, dunque, alle fasce deboli di un mercato che già mostrava i segni del cambiamento profondo che oggi lo caratterizza. La cosa peggiore nel mercato del lavoro è restarne fuori troppo a lungo, rischiando di non trovare poi varchi d’accesso. Meglio rimanerci con un piedino che configura la prestazione, quando non si è coinvolti per più di 30 giorni all’anno, come rapporto di natura meramente accessoria e occasionale, purché il compenso non superi i 3000 euro netti. Opportunità rivolta a disoccupati, casalinghe, studenti, pensionati, disabili e lavoratori extracomunitari.

La moneta di pagamento di tale lavoro accessorio si chiama voucher; nel 2003 restituiva al lavoratore un netto di 5,8 € all’ora, oggi ha raggiunto 7,50 € netti (valore nominale buono € 10,00). Meccanismo legale, con garanzia di coperture INPS e INAIL, che tutela il committente, ovvero colui che beneficia della prestazione di lavoro e, il prestatore, che può integrare le sue entrate, compatibilmente al versamento di contributi sia obbligatori, che volontari.

Nel tempo la disciplina legislativa si è evoluta dando luogo ad un meccanismo solo di tipo economico quantitativo; si parlerà infatti con la legge Fornero di compensi massimi pari a 5000 € netti “nel corso dell’anno solare”, estendendo inoltre i buoni lavoro a tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali. Subito dopo, nel 2013 (decreto legge n. 76/2013), si modificherà la natura stessa di tale tipologia di lavoro, eliminando il riferimento a quella “meramente occasionale”. Passaggio che fa sparire l’identità di una prestazione nata per integrare entrate non sufficienti e sostenere temporaneamente alcune categorie di lavoratori.

Il rischio di non avere identità è quello di trasformare in qualcosa di permanente, ciò che doveva essere solo accessorio o occasionale. Quale sviluppo ha avuto tale mercato?  Nel periodo 2008-2015 ben 2,5 milioni di prestatori e 277,2 milioni di voucher da 10 euro venduti (fonte Inps). La cosa più importante, tuttavia, rimane l’utilizzo che si fa degli strumenti. L’irregolarità è sempre alle porte, nonostante la correzione, introdotta nel Jobs Act e operativa da ottobre 2016, che ha previsto l’obbligo di comunicare l’inizio della prestazione alla Direzione Territoriale del lavoro competente, in modo preventivo e per via telematica.

I miei genitori, non più in vita, se venissero traslati per incanto all’epoca del lavoro che viviamo, vedrebbero una linea interrotta e al pensiero di essere pagati con dei buoni, non capirebbero perché. In molti hanno palesato il possibile rischio di avanzamento del lavoro precario e del sommerso e la debolezza di questo meccanismo. Certo, la colpa non è del lavoro accessorio; il punto è che non può avere effetto strutturale ciò che per sua natura non lo è.

I numeri poi non mentono mai, al di là delle possibili interpretazioni. Sono oltre 3 milioni, secondo le stime della Cgia di Mestre su dati 2014, i lavoratori in nero presenti in Italia.

Secondo la Cgil nei primi nove mesi del 2016 sono aumentate le assunzioni a termine (a 2,7 milioni) e quelle stagionali (a 470.000).

Numeri e vite da cambiare.

Maria Luisa Visione