L’asimmetria fiscale nell’Unione Europea

Se poi davvero fosse Italexit?

Mai come di questi tempi la questione fiscale assume un’importanza rilevante perché da qualsiasi parte la guardi sono soldi, in più o in meno che si pagano o che servono, a seconda della prospettiva.

In odore di Legge di Bilancio, dopo aver evitato la procedura d’infrazione, sul tavolo rimangono i soliti problemi: trovare i soldi per neutralizzare l’aumento dell’IVA, declinare una volta per tutte con chiarezza la Flax tax, rimanere fedeli a misure sociali che necessitano di risorse, ma comunque sia, non possono compromettere il rispetto del Patto di Stabilità Europeo.

Nel frattempo, un nuovo punto di osservazione, può diventare stimolo di ragionamento grazie alle parole contenute nella Relazione annuale dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato. Si ammette, infatti, che l’idea di crescita e benessere per tutti, legata alla globalizzazione dei mercati, ha fatto acqua e che esistono asimmetrie e distorsioni competitive nel mercato unico europeo che oggi sono mal percepite e creano disaffezione, a causa degli effetti negativi che hanno generato.

Su questo fronte si apre la questione fiscale. I Paesi più penalizzati sono quelli che hanno una tassazione meno favorevole per le imprese, perché sono soggetti a veder trasferire le sedi fiscali delle loro aziende verso quei Paesi che, invece, hanno tassazione agevolata, diminuendo il gettito fiscale a favore dello Stato, (che si sposta di conseguenza). Dalla Relazione, il danno economico stimato per l’Italia nelle entrate dello Stato dalla concorrenza fiscale è tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno.

Inoltre, molti colossi internazionali, grazie alla tax ruling, che è una pratica che definisce prima il trattamento fiscale che un Paese garantisce alla società (spesso multinazionale) che stabilisce la sua sede in quel Paese, hanno trovato la strada, peraltro legale, di pagare meno imposte. Ora, il punto è che tutti cercano di fare i loro interessi, ma questo altera la concorrenza. Ora, se pensiamo che l’Italia attrae investimenti esteri diretti per il 19% del PIL, mentre Lussemburgo per oltre il 5.760%, capiamo bene che c’è una significativa differenza nelle imposte raccolte, conseguenza di chi si avvantaggia e chi no.

Ma il punto che mi interessa mettere in evidenza è che le nostre imprese di piccola e media dimensione, in proporzione, a causa di questi squilibri concorrenziali, pagano più tasse delle grandi multinazionali. La domanda è sempre la stessa: dentro quali tasche rimane la ricchezza prodotta? In maniera molto semplice, basterebbe che l’imposta venisse versata nel luogo in cui viene prodotta la ricchezza.

L’altro aspetto su cui riflettere è che tali distorsioni rischiano di alterare i diritti sociali, come nel caso di pratiche di dumping sociale/contributivo che, favorite dalle delocalizzazioni, si sostanziano nello sfruttamento a proprio vantaggio di minori tutele previste a favore dei lavoratori.

Non da ultimo (citata nella relazione), l’applicazione della normativa europea al sistema bancario sugli aiuti di Stato, come nel caso della Banca Tercas, quando per il salvataggio si potevano utilizzare le risorse del fondo interbancario di tutela dei depositi, limitando gli effetti deleteri per i risparmiatori.

Quale diventa, quindi, il limite tra ciò che è giusto applicare e ciò che non lo è, se siamo tutti uguali, ma poi, trasferendoci in pensione in Portogallo non paghiamo le tasse sul reddito per 10 anni?

Ovvero, come la recuperi così la solidarietà sociale tra tutti i Paesi? Forse è più probabile che favorisci i flussi migratori di denaro, come dice un noto proverbio: 

“I soldi vanno sempre dove ce n’è”. Da fare, intendo.

Maria Luisa Visione