Il Rapporto annuale Inps 2018: non solo immigrazione

Forse non tutti sanno che l’INPS ha avuto radici di tipo mutualistico, di aiuto reciproco per gli iscritti. Un’organizzazione volontaria della fine del XIX Secolo che, solo dopo 20 anni dalla nascita, divenne obbligatoria perché le persone, lasciate libere di farlo, non si assicuravano abbastanza al rischio di sopravvivere al proprio reddito. La natura divenuta obbligatoria dei contributi, come ci ricorda Boeri nella Relazione al Rapporto Annuale Inps del 2018, ce li fa percepire alla stregua di tasse e non come risparmio per il futuro/consumo differito.

Ne traggo spunto mettendo in evidenza ciò che mi colpisce del Rapporto, in termini di dati, tralasciando i numeri sull’immigrazione, dato che, di quelli, ne parlan tutti.

Il primo: abbiamo 2 pensionati per ogni 3 lavoratori e le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, a partire dal 2045 parlano di un rapporto 1 a 1. Dal momento che chi lavora paga le prestazioni a chi è in pensione nel nostro sistema a ripartizione, capiamo bene che il vero problema rimane aumentare gli occupati reali regolari, perché diversamente quanto dovrebbe pagare della sua remunerazione il lavoratore per consentire il pagamento delle pensioni?

Il secondo: il numero dei disoccupati over 55 è destinato ad aumentare. Io ricordo, che una volta, 55 anni era l’età alla quale il ciclo economico dell’individuo, ovvero la sua funzione di evoluzione del reddito nel tempo diventava costante, cioè si stava per andare in pensione. Oggi, invece, tutto è spostato in avanti e a 55 anni sei lontano dall’età pensionistica, quindi, se perdi lavoro devi ritrovarlo. La mia domanda è: quanti saranno in grado, in caso di condizioni sfavorevoli, di anticipare la pensione?

Il terzo: l’assegno REI ha già raggiunto nei suoi primi cinque mesi circa 300.000 famiglie e un milione di persone. A regime ne raggiungerà 1 milione e 462 mila. Se i poveri assoluti sono 5 milioni, per gli altri che succede? 

Il quarto: il 35,9% del totale pensionati italiani percepisce meno di 1.000 euro al mese (15 milioni e 477 mila individui). Questo dato lo metto in relazione ai salari reali; l’Ocse attesta che sono scesi dell’1,1% tra il quarto trimestre 2016 e il quarto trimestre 2017. Di conseguenza, se la nostra pensione futura sarà risultato del versamento dei nostri contributi in base al reddito percepito, le remunerazioni sono adeguate alla dignità della vita?

Il quinto: gli occupati a tempo indeterminato sono scesi da 14,1 milioni a 13,8 milioni. Sono invece aumentati di 1 milione i lavoratori a tempo determinato e quelli coinvolti in apprendistato. E sempre l’Ocse ci ricorda che in Italia “il livello d’insicurezza nel mercato del lavoro (la probabilità di perdere il posto e restare senza reddito) sia il quarto più alto tra i paesi Ocse, dopo Grecia, Spagna e Turchia”.

La mia conclusione è questa: 

Se la qualità del nostro futuro dipenderà dalla qualità del nostro presente, il comune denominatore rimane la consapevolezza. Consapevolezza che se tutti dobbiamo impegnarci a produrre reddito (per l’equilibrio del sistema), a tutti deve essere data l’opportunità di farlo, perché senza lavoro non c’è futuro e non ci sarà pensione sufficiente. E non ci sarà prelievo forzoso che tenga.

Qualsiasi lavoro, svolto con onestà e nella legalità, è e sarà sempre dignitoso. Ed escludo lo sfruttamento, ovviamente.

Dimenticavo l’ultimo dato: 115.000 persone tra i 25 e i 44 anni nel 2016 hanno lasciato il nostro Paese. 

Maria Luisa Visione