Merli, candele, quarantine e pronostici: dell’inverno siamo fuori?

Dai, gente, ormai siamo al rush finale: gennaio è andato e con lui una bella fetta dell’inverno ce l’abbiamo alle spalle. Resta da passare “febbraio febbraietto, corto corto e maledetto” e poi a marzo comincia la primavera. Sì, ma nel frattempo ci sono da scollettare giorni ancora una volta critici dal punto di vista climatologico e, inevitabilmente, carichi delle valenze folkloriche (ormai lo abbiamo capito, no?) che sottolineano ed esorcizzano i momenti di passaggio del calendario.
Il gennaio lo salutiamo con i “giorni della merla”(29-30-31, ai quali, in qualche tradizione, si attacca anche il 1 febbraio) che sono considerati i più freddi dell’anno (per la verità le statistiche meteorologiche recenti dicono che non è affatto vero, il che significa che questa leggenda si è formata in epoche di clima più rigido, prima del riscaldamento globale, dell’effetto serra e di tutte le altre sciagure che ci fanno ansiare per il nostro disastrato ambiente).
Intorno ai tre giorni freddi si è formato un grappolo di leggende, tutte finalizzate a spiegare la strana denominazione. Così, riducendo tutte le varianti ad un nucleo comune, avrebbero questo nome perché una merla e i suoi merlotti, per il freddo, si rifugiarono in un camino e ne uscirono grigi di fuliggine, derivando, da quell’episodio, il colore del loro piumaggio (i maschi diventano neri, ma solo da adulti). Secondo un dotto studioso amico di Ludovico Antonio Muratori, ricercatore (fra le tante altre cose studiate) dei modi di dire tradizionali, Sebastiano Pauli (Villa Basilica, Lucca 1684 – Napoli 1751), il nome sarebbe derivato da un episodio avvenuto in epoca imprecisata, quando, per far passare attraverso il Po un pesantissimo cannone, chiamato “la Merla”, si erano dovuti aspettare i giorni in cui il fiume era ghiacciato. Sempre lui, riporta anche un’altra possibile spiegazione, legata al fatto che una dama di Caravaggio, della famiglia dei Merli, per andare a sposarsi aveva dovuto anch’essa aspettare che il fiume (sempre il Po) fosse gelato per poterlo attraversare. Se si pensa che la tradizione dei giorni della merla coinvolge il folklore di pressoché tutta l’Italia (Lombardia, Friuli, Romagna, Toscana, Sardegna, dove però non si fa parola di merli, ma solo di pastori, pecore e gelo, e dove si spiega perché gennaio ha 31 giorni e febbraio 28: c’è una leggenda speculare per i cosiddetti “giorni della vecchia” a fine marzo; se capita se ne riparla), se si pensa questo, si diceva, è possibile che degli episodi padani del cannone o della sposina novella, a tutte quell’altre latitudini, non gliene potesse fregare di meno. E dunque, la poetica leggenda della merla e dei suoi merlottini continua a reclamare la sua primazia.
Il fatto che in tutte le parti d’Italia che abbiamo ricordato i giorni della merla si celebrino con canti e feste è un chiaro indicatore del nuovo periodo di passaggio del calendario, ma il giorno chiave di questa nuova “crisi” (folkloricamente e antropologicamente parlando) si colloca nel secondo giorno di febbraio, con la Candelora. Su questa data, infatti, si concentra (per l’ennesima volta) un condensato di culture diverse: cristiane, pagane, agricole senza ancoraggio religioso.
Per la Chiesa, il 2 febbraio si celebra la purificazione di Maria, dopo 40 giorni (il 40 non ci abbandona mai in questi excursus) dal parto. Addirittura, in alcune culture (vedi Polonia, ad esempio) le feste natalizie non finiscono per niente per la Befana, ma proprio il 2 febbraio per la Candelora.


Fin qui, tutto semplice. Peccato che, ancora una volta, il condensato di rituali ci costringa a prendere atto che siamo per l’ennesima volta di fronte alla cristianizzazione postuma di manifestazioni che – legate al ciclo calendariale – si sono sviluppate prima del (e fuori dal) Cristianesimo. Che c’entra con la purificazione di Maria il rito delle candele? O il cercare di pronosticare la fine o meno dell’inverno?
Sostanzialmente niente. O, almeno, qualche cosa, ma solo in maniera indiretta.
Febbraio è considerato, anche nella religiosità pagana, il mese della purificazione e dell’omaggio ai morti, perché segna il passaggio fra due cicli stagionali. Ambrogio Teodosio Macrobio, filosofo, scrittore, astronomo (nato alla fine del IV secolo e morto negli anni Trenta del V secolo: sì, campò come un gatto in autostrada) ci testimonia che febbraio si chiama così perché viene dal verbo februare, cioè purificare e che Numa Pompilio aveva stabilito che in questo periodo si purificasse, appunto, la città e si onorassero i defunti, perché ogni passaggio comporta un contatto con il mondo dei morti e perciò richiede di essere solennemente celebrato in purezza. Nell’antica Roma i riti coinvolgevano anche i giorni successivi, con il culmine delle cerimonie dei Lupercali a metà febbraio, ma di questo parleremo quando racconteremo di San Valentino (che anche lui, in quanto a eredità pre-cristiana, non monda nespole): per il momento accontentatevi di sapere che nella grande festa purificatrice di febbraio compare la figura di Iuno Februata, ovvero Giunone (guarda un po’!) purificata, celebrata con una processione (guarda un po’!) di fiaccole, proprio a inizio del mese, quando, con il nome di Iuno Sospita (ovvero la salvatrice: patrona delle nascite) veniva ricordata nel giorno della costruzione del suo tempio sul colle Palatino.


La Chiesa orientale, fin dal IV secolo, sovrappose a tutto questo imbarazzante bagaglio pagano ancora ben vivo nell’immaginario collettivo la festa della presentazione di Cristo al tempio e la Chiesa occidentale si adeguò, con qualche ritardo, nel VII.
E le candele? Una delle poche donne delle quali ci sia noto il pellegrinaggio in Terrasanta, Egeria (o Eteria, vissuta fra IV e V secolo) racconta del rito di accendere tutte le fiaccole e i ceri per ricordare la purificazione di Maria: ma quando scrive Egeria il rito è collocato a metà febbraio, cioè 40 giorni dopo la data chiave dell’Epifania, e quindi esattamente in coincidenza con le feste pagane. Nel momento in cui la Chiesa lo cristianizzerà, depurandolo degli aspetti pre-cristiani, lo retrodaterà, per questo, all’inizio del mese, scollandolo, così, dal controverso significato dell’Epifania e agganciandolo all’indiscutibile e indiscusso 25 dicembre. Un Lunario stampato in Toscana nei primissimi anni dell’Ottocento è prezioso per farci capire che cosa è successo e perché: lo riporta Alfredo Cattabiani (Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Rusconi 1994) e vi si legge che “La mattina si fa la benedizione delle candele che si distribuiscono ai fedeli; la qual funzione fu istituita dalla Chiesa per togliere un antico costume ai fedeli che in questo giorno in onore della falsa dea Februa [Iuno Februata] con fiaccole accese andavano scorrendo in città, mutando quella superstizione in religione e pietà Cristiana”.
Le candele si sono, peraltro, cominciate a benedire fra il IX-X secolo (probabilmente per la prima volta in Francia), in modo da creare un collegamento con la sacralità del cero nel quale si identifica Colui che ha portato la luce dello spirito nel mondo: Cristo. Insomma, si era trovato il modo di accordare tutto: la purificazione della Madonna, la candela simbolo della purificazione stessa tramite il fuoco (che è anche fecondatore e metafora del Sole che sta di nuovo per trionfare sull’inverno), la rinnovata centralità di Cristo, l’esorcismo dei culti pagani.
Ma la mentalità agricola a-religiosa non la freghi con la cristianizzazione e riscappa fuori con la valenza di “giorno di pronostico” affidato alla Candelora che, secondo come butta, ci dice se “dell’inverno siamo fora” o se dobbiamo aspettare a rimettere in naftalina il pastrano. In questo caso è il passaggio stagionale a dettare legge, ma interpretazioni più controverse, la Candelora, non poteva averne.

Che tempo deve fare? Piovere? Grandinare? Tirare vento? Splendere il Sole? I detti popolari ci fanno perdere il capo: “Per la santa Candelora se nevica o se plora [piove] dell’inverno siamo fuora”, sì, ma come si concilia con “Se nevica per la Candelora sette volte la neve svola”? o con “Se piôv par Zariōla [nome dialettale della Candelora] quaranta dè l’inveran in z’arnôva” (l’inverno dura altri 40 -rieccoli!- giorni) dei contadini romagnoli? In Veneto, poi, guai se piove o tira vento, e qui da noi, in Toscana, bisogna che piova o grandini perché “se è sole o solicello siamo appena a mezz’inverno”.
In qualche caso, si affida agli animali il pronostico sul tempo che ci aspetta: in Piemonte, se l’orso, il 2 febbraio, lascia il giaciglio vuol dire che siamo ancora a metà inverno; altrove la stessa funzione è affidata al lupo e ci si ricorderà che in Canada e negli Stati Uniti il 2 febbraio è il giorno della marmotta (in qualche località, del riccio), una credenza che, peraltro, non è solo limitata al continente americano ma viene condivisa da altre culture; si ritrova in Trentino, per esempio. Se la bestiolina, dice la tradizione, in questa giornata si sveglia e si affaccia alla tana e non vede la sua ombra perché è nuvoloso, è fatta: l’inverno è finito. Se invece c’è il sole e vede l’ombra (ma il prototipo di questa superstizione non è americano: è scozzese) si spaventa e ritorna di corsa a dormire (digli bischera!) e della bella stagione se ne riparla fra sei settimane, cioè 42 giorni, ovvero, scartando il giorno del test e quello in cui l’inverno finisce, 40 (tanto per cambiare) ulteriori giorni di freddo.
L’incertezza del pronostico, del resto, ben la coglieva il nostro concittadino Ranuccio Bianchi Bandinelli, il quale, in un’annotazione riportata sul suo diario il 6 febbraio 1955, raccontava ironicamente divertito la strana e contraddittoria Candelora di quattro giorni prima: “Se piove per la Candelora dell’inverno siamo fòra; ma se è sole o solicello siamo sempre a mezz’inverno. Affacciato alla finestra recitavo tra me quel nostro vecchio detto, cercando di cavar un pronostico della giornata. Ma la giornata della Candelòra fu, almeno al mio paese, estremamente incerta. Cielo pesante, piovaschi, poi un raggio di sole e, a sera, nebbia. E non mancò, mi fu detto, qualche chicco di grandine dura. Chi ci cava un pronostico è bravo, dissi tra me. E mi rimproverai di non essere, la notte fra il 12 e il 13 gennaio, quando scadono i calèndoli, salito sul tetto e osservare la lotta che si danno i venti. Ma poi, pensai, vada come vada, tra un mese e diciassette giorni, ha voglia la Candelòra a far equilibrismi, la primavera entra lo stesso. E a volte sembra già di avvertirla nel colore dell’aria, nell’odore della terra e nel volto degli uomini”.

Duccio Balestracci