L’ospedale Psichiatrico di San Niccolò a Siena: una storia iniziata duecento anni fa

 

Nell’ottobre del 1818 i 34 pazienti psichiatrici (15 uomini e 19 donne) all’epoca presenti a Siena vengono trasferiti in un nuovo edificio, sotto la direzione di Giuseppe Lodoli, docente nell’Ateneo Senese e propugnatore di un metodo di cura non repressivo. Il nuovo complesso viene inaugurato ufficialmente il 6 dicembre di quell’anno, giorno di San Niccolò che dette il nome al nascente manicomio.
Quando apre i battenti in Italia ci sono pochissimi ricoveri come questo; in Toscana c’è quello di Firenze e basta.
Lodoli è un innovatore: introduce l’idroterapia, costituita da bagni prolungati rilassanti, e interviene studiando l’alimentazione dei ricoverati per evitare squilibri dovuti a ipoalimentazione o a dieta sbagliata: Siena si configura subito come un punto di riferimento per la nascente psichiatria, e ancor di più assume questo ruolo quando, nel 1858 a Lodoli, succede Carlo Livi (1823-1867). Il periodo della sua direzione coincide con lo scorporo di due sezioni incongrue rispetto a quella che si occupa degli alienati mentali: l’ospedale dei tignosi e quello delle “gravide occulte”, entrambi gestiti dalla stessa società pia. Sull’opportunità di staccare dall’istituto i tignosi, per la verità, si era già pronunciato con forza lo stesso Pietro Leopoldo che, in occasione della già ricordata visita a Siena del 1786, aveva scritto, a proposito di quell’ospedale quando ancora aveva una differente sede: “Vi è una stanza, o piccolo spedale de’ tignosi alla porta Laterina che dipende dalli esecutori delle pie disposizioni: questo andrebbe abolito ed unita questa cura in una stanza dello spedale” [sottinteso: di Santa Maria della Scala]. L’auspicio del sovrano lorenese si sarebbe realizzato con 80 anni di ritardo, ma dal 1866 la cura della malattia delle pelle dei bambini passa all’ospedale maggiore, mentre, nello stesso anno, le “gravide occulte” vengono ospitate nel caseggiato accanto al manicomio, che, per essere stato sede del Commendatario del Sacro Ordine Gerosolimitano di Malta, si chiama la Commenda.
Livi – innovatore non meno del Lodoli – propone di buttar giù il vecchio edificio conventuale per organizzare al meglio l’assistenza ad un popolo di ricoverati che è andato vistosamente crescendo e nei confronti del quale il medico applica forme innovative di terapia, come l’ergoterapia che cerca di ricollegare gli alienati mentali al mondo reale attraverso il lavoro.
Le titubanze delle Pie Disposizioni vengono forzosamente superate da un dato di fatto: dal 1869 il San Bonifazio di Firenze non accetta più ricoverati da Arezzo, Pisa e Livorno e, da queste città, i pazienti vengono indirizzati a Siena. Ricostruire e ampliare il manicomio diventa un passo ineludibile. Nel 1868 i ricoverati sono 285: l’anno dopo raggiungono già la cifra di 467.
La ristrutturazione, affidata all’architetto romano Francesco Azzurri vede la costruzione dell’edificio principale (il Centrale) sul sito del vecchio convento e, dopo che Livi sarà chiamato a Reggio Emilia, nel 1873, la ristrutturazione edilizia dell’intera area manicomiale andrà avanti sotto la direzione di Ugo Palmerini, convinto assertore del manicomio “disseminato”. Così, dalla fine dell’Ottocento prendono vita vari padiglioni destinati a funzioni specifiche e, soprattutto, si consolida un concetto di manicomio modulare che continua ad essere sviluppato sotto Paolo Funaioli (costruzione del Villaggio Artigiano) e Antonio D’Ormea (ideatore e realizzatore dell’Istituto Psicopedagogico destinato alla cura dei ragazzi alienati).
La direzione di D’Ormea è di gran lunga più longeva, 43 anni (dal 1909 al 1952) ed ha, pertanto, “governato” lo sviluppo dell’ospedale nel bene e nel male. Infatti durante la sua direzione si assiste ad uno sviluppo vorticoso della cittadella con acquisizioni tecnologiche importanti, quali la centrale elettrica, la nuova lavanderia, il molino. Inoltre si completa l’acquisizione dei terreni destinati al lavoro agricolo, tra i quali anche l’Orto de’ Pecci acquistato nel 1912 e quasi subito destinato all’ergoterapia. Il San Niccolò diventa così un ospedale all’avanguardia in grado di accogliere fino a duemila malati, provenienti da più provincie, ma D’Ormea, in qualche modo, pone però anche le basi per l’inizio di una parabola discendente di tutta l’esperienza. La grande massa di pazienti, in effetti, spinge sempre di più verso una necessità di controllo e custodia a scapito delle possibilità terapeutiche che, in epoca ancora pre-farmacologica, non poteva reggersi che su un rapporto impostato su canoni quasi familiari. Importante anche l’impulso che D’Ormea dette all’Istituto Psicopedagogico per i bambini. Lo stesso direttore fu uno dei primi che capì l’importanza della comunicazione, si direbbe oggi, che mettesse in luce gli aspetti positivi dell’istituzione che lui conduceva. Durante la sua direzione, infatti, videro la luce alcune pubblicazioni dal tono celebrativo che mettevano il San Niccolò all’avanguardia nel campo psichiatrico.
Nei secoli, dunque, la popolazione dell’ospedale psichiatrico cresce in continuazione: nel 1888 i 34 pazzi di settant’anni prima sono già diventati circa mille; 1159 undici anni dopo; oltre duemila prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1905 viene istituita la Villa di Salute destinata alle donne paganti e, negli anni Trenta, fuori porta Romana e davanti all’altro edificio, nasce la analoga Villa destinata agli uomini. Al 1933 il san Niccolò è una vera e propria piccola città dei pazzi, con l’edificio centrale contornato da 16 padiglioni e una colonia agricola nell’area dell’attuale Orto de’ Pecci, per un’estensione totale di 165.000 m2 , dei quali 18.000 edificati. In questa veste l’ospedale psichiatrico arriva fino alla sua soppressione in seguito alla legge 180 del 1978, comunemente da tutti conosciuta come “legge Basaglia” che deistituzionalizzava i manicomi.
Un discorso a parte merita il Conolly, che, per assurdo prende il nome prende il nome da John Conolly (1794-1866), psichiatra di origine irlandese che aveva abolito, nell’ospedale di Hanwell, dove era direttore, i metodi di contenzione e repressione psico-fisica per i ricoverati, sostenendo la possibilità di curare la malattia mentale senza metodi costrittivi, abolendo l’isolamento e la privazione degli oggetti. Invece il reparto del San Niccolò faceva proprio questo ai malati: nato su modello del Panopticon (edificio carcerario ideale progettato nel 1791 da Jeremy Bentham durante la riforma giuridica britannica), si basava sull’idea che, grazie alla forma radiocentrica dell’edificio e ad opportuni accorgimenti architettonici e tecnologici, un unico guardiano potesse controllare tutti i prigionieri in ogni momento. Le celle anguste nelle quali venivano racchiusi i pazienti “agitati” erano vuote ad eccezione di un giaciglio per dormire e al loro internamento veniva tolto ogni effetto personale che li riportasse al mondo esterno, quel mondo, si pensava, che li aveva portati alla follia. Il Conolly, oggi, è ancora pericolante e la sua distruzione creerebbe una perdita incolmabile. Questo reparto così particolare racchiude in sé un concetto di medicina e psichiatria che va storicamente fatto conoscere, un modello pedagogico (anche nella crudezza) che nell’intento di chi lo costruì doveva liberare il malato dalle proprie angosce, un modello architettonico unico in Italia e un luogo di memorie e sospiri che non può essere fatto tacere per sempre.
Questo 6 dicembre 2017, quando si darà inizio all’anno celebrativo per i 200 anni della fondazione del San Niccolò, sarà forse anche l’occasione in cui sarà svelato il destino del grande malato di quell’area che è proprio il quartiere Conolly. Asl ed Università chiariranno, si spera, quali sono i progetti al proposito nella speranza che qualcosa per il Conolly si faccia davvero.

Maura Martellucci
Duccio Balestracci
Andrea Friscelli