Le storie del manicomio: Niccolò Cannicci, il Pascoli della pittura

 

Per raccontare la storia dell’altro pittore che ha conosciuto il San Niccolò (ricordate? abbiamo ripreso le storie del manicomio domenica scorsa, se vi siete persi il racconto potete rileggerlo qui) ho pensato di partire, un po’ inusualmente, da un suo autoritratto. È una tela che è conservata nella Galleria di Arte Moderna di Palazzo Pitti, è datata 1870, quando l’autore aveva 24 anni.


Come si sa un autoritratto è prima di tutto una sorta di dichiarazione che l’autore fa su sé stesso, ritraendo, sì, i lineamenti e i particolari del volto, ma dando anche sempre una visione psicologica, a volte magari inconsapevole, del proprio carattere. In questo caso la tela ci restituisce un viso dai tratti regolari di un giovane uomo con i baffi spioventi e con una pettinatura, immagino, alla moda di quel tempo. Ma ritrae anche l’indole del soggetto che è caratterizzata da uno sguardo che a me pare profondamente triste. Sembra cioè cogliere immediatamente due caratteristiche che poi segneranno la vicenda esistenziale e clinica del Cannicci e cioè da un lato la sensibilità e l’eleganza e dall’altro il fondo depressivo che probabilmente non lo lascerà mai.
Il Cannicci nasce a Firenze nell’ottobre del 1846 da una famiglia benestante e già caratterizzata dal talento artistico. Il padre Gaetano, nativo di San Gimignano, infatti è anche lui pittore e indirizza perciò il figlio agli studi artistici facendogli frequentare l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Niccolò nasce a Firenze perché in quel periodo il padre che lavorava ormai nell’orbita dell’Accademia, vi si era trasferito.
Dopo gli studi con Pollastrini, Niccolò frequenta altre scuole e si avvicina a Giovanni Fattori e Telemaco Signorini, entrambi esponenti del movimento dei macchiaioli. Con Martelli partecipa alle riunioni del “Comitato Decentrista” che rivendica una maggiore autonomia proprio dalle accademie (forse nel suo caso, ci si può chiedere, anche dall’influenza paterna?).
Nel 1868 si trasferisce a San Gimignano, nella casa paterna del Poggetto. Lì visse una buona parte della vita e in quella casa (in via Quercecchio) fu messa, dopo la sua morte, avvenuta nel 1906 quando aveva 60 anni, una lapide di ricordo nella quale tra l’altro si dice: “cercò la poesia della vita e dell’arte nelle campagne sangimignanesi da cui tolse i soggetti dei suoi quadri sublimi…”.
Comincia anche a viaggiare, è presente a Parigi all’esposizione universale del 1878, espone a Londra, a Torino. In genere le sue opere sono sempre apprezzate, alcune acquistate direttamente da varie gallerie nazionali, insomma diventa rapidamente un pittore conosciuto e di successo.
Molti hanno sottolineato le sue caratteristiche inclini alla sensibilità ed alla delicatezza, meno il fatto che preferisse spesso star solo e dare ai suoi quadri un gusto un po’ crepuscolare, tanto che qualche critico affermò che Cannicci fu il Pascoli della pittura (qualcun’altro invece, evidentemente apprezzando molto la sua opera, disse, invertendo i termini della questione, che era il Pascoli ad essere un “Cannicciano”).
Qualcosa di queste caratteristiche artistiche lo si ritrova in effetti nella vicenda clinica che lo portò a soggiornare per qualche mese al San Niccolò. Un ricovero breve (un po’ più di due mesi), per quei tempi una degenza “lampo”, che si risolve con una piena guarigione da uno stato depressivo che, per quanto se ne sa, non si ripresentò, con quella gravità almeno, mai più.
Il Cannicci si ricovera nell’agosto del 1893, quando ha 47 anni. La possiamo perciò definire una crisi di mezza età. Già quindici anni prima era morto il padre, ma in quell’anno, nel mese di maggio, muore la madre a cui probabilmente era molto attaccato. Inoltre questo lo mette nella scomoda posizione di capo della famiglia, ruolo che probabilmente non gli si addice tanto e sopporta con qualche fatica, e così si deve occupare di spinose vicende familiari. Troviamo scritto infatti nel diario clinico la seguente nota: “…le noie e le controversie che trovò per aver dovuto togliere dalle mani di un suo cognato una sua sorella, che da questi veniva tenuta male…” Un appunto il cui contenuto pare molto attuale, anche se espresso con un linguaggio che oggi sarebbe fortemente criticato.
La descrizione che ne dà il medico al primo incontro racconta di una familiarità per nevropatia, nello stesso tempo si parla di persona “costumatissima”, di un fondo nevrastenico che negli ultimi tempi si è esacerbato per via di “patemi d’animo”. Si fa cenno anche alla sua attività artistica, “della quale si è sempre occupato con molto interesse e distinto assai”. Ma ciò che rappresenta la causa scatenante del ricovero sono ripetuti tentativi di suicidio, l’ultimo dei quali avviene nel corso del suo trasferimento a Siena per il ricovero. Durante quel piccolo viaggio il Cannicci tenta di precipitarsi dal treno in corsa.
Il primo esame psichico effettuato mette in evidenza il fatto che il nuovo arrivato è accorato, triste, senza alcuna fiducia. Pare rassegnato alla sorte che lo attende e che non può che essere la morte. Afferma infatti di aver voluto venire all’ospedale solo per capire, quasi per studiare, quali possano essere le prossime fasi della sua malattia. Vedendo gli altri malati così saprà infatti cosa lo attende prima dell’esito finale. Questa convinzione è forte e colora il quadro di una lieve sfumatura delirante. Tutte le altre funzioni mentali sono ben conservate anche se naturalmente influenzate da questo stato emotivo così particolare.
La data del ricovero è il 9 di agosto e già dal 29 di quel mese il medico riporta in cartella segni di un miglioramento, il paziente infatti abbandona quella totale sfiducia sul suo destino. Nei primi giorni di settembre il miglioramento si consolida, i discorsi “strani” spariscono, comincia a mostrarsi più socievole e conversa volentieri con altri ammalati “intelligenti”. Parla di qualche timore per la sua salute, soprattutto per aver, venti anni prima, contratto la sifilide ma della quale si è ben curato e bisogna solo rassicurarlo che non c’è nessuna sequela per quel morbo. Verso la fine di settembre riprende a dipingere con piacere e alla fine del mese comincia anche a chiedere di riacquistare la libertà per tornare alle sue attività. Così il 6 ottobre viene dimesso guarito con diagnosi di “lipemania semplice” che oggi forse potrebbe essere tradotta in una diagnosi di “sindrome depressiva reattiva”. Si chiama così quella depressione che rappresenta la reazione ad alcuni eventi. Di solito è facile capire quali sono stati gli avvenimenti che l’hanno motivata, a differenza di quella endogena, di solito più grave e nella quale non si rintracciano motivazioni almeno immediatamente comprensibili.


Nel corso del ricovero il Cannicci riprende l’appetito e un buon tono fisico probabilmente grazie anche al trattamento idroterapico in gran voga in quegli anni. Infatti all’inizio viene sottoposto a bagni freddi con ravvolgimento. I pazienti si adagiavano in una vasca con acqua fredda e vi rimanevano a lungo coperti da asciugamani che poi, una volta usciti, venivano avvolti intorno al corpo. Quando la situazione comincia a migliorare il bagno viene sostituito con doccia a pioggia sulla testa. Il Cannicci stesso dichiara di sentire molto giovamento da queste pratiche che sembrano un po’, il paragone non sembri ridicolo o fuori luogo, quelle di una moderna spa, dove la cura del corpo finisce per influire anche sulla mente. Poi gli viene somministrato del cloralio come lieve calmante e del lattato di ferro come ricostituente fisico. Insomma verso di lui il manicomio mette in campo la sua faccia più dolce e materna, lo coccola un po’ in una fase critica della sua vita e con questo trattamento riesce a rimetterlo in piedi e a dargli di nuovo la voglia di vivere. Forse, attraverso il ricovero e questo trattamento, il processo di elaborazione per il lutto della madre viene accelerato. Egli può sentire, nel proprio interno, di aver sofferto abbastanza, lo dimostra il fatto che è finito in manicomio e adesso che ha, come dire, scontato la sua pena, può di nuovo incamminarsi sulla sua strada.


Viene facile fare un paragone con la vicenda del Puccini. Qui ci troviamo in un ambiente familiare più solido, con una sorta di tradizione familiare che lo avvia verso la pittura, là invece ci trovavamo davanti ad un talento sbocciato per caso in una famiglia modesta e umile che lo sosteneva ma lo soffocava allo stesso tempo. Forse questo motiva l’affermazione più tarda del Puccini, mentre per il Cannicci il successo è stato rapido e costante nel tempo.
Le sue opere, che lo riconoscono uno tra i più noti macchiaioli, sono tuttora in circolazione presso antiquari e case d’asta con valutazioni che si aggirano intorno ai quarantamila euro.

Andrea Friscelli