Le storie del manicomio – Giovanni Roy contro Antonio D’Ormea

Il 17 febbraio del 1910 viene ricoverato al San Niccolò un uomo di 43 anni: si chiama Giovanni Roy e solo da qualche mese abita a Siena, in via Franciosa, con moglie e figlia.

Nelle note anagrafiche viene riportata la qualifica di pittore e la condizione sociale viene definita discreta. Inizia così un ricovero che si risolverà con una breve degenza da cui il Roy esce migliorato. Tutto sommato una vicenda banale ma che avrà, come vedremo, un seguito che non si può definire allo stesso modo.

Il medico che lo riceve parla di sovra eccitamento maniacale instauratosi su un fondo paranoico. Viene riferito che negli ultimi giorni era diventato irrequieto, stravagante, collerico, non andava d’accordo in famiglia e più volte aveva minacciato il suicidio. Possiede una rivoltella che spesso maneggia incutendo timore a tutti e così i vicini hanno chiamato la Pubblica Sicurezza. È persona instabile che ha cambiato spesso ambiente e città. Infatti, figlio di una coppia tedesca, ha risieduto a Berlino ma in seguito ha preso a viaggiare, ha soggiornato a Vienna, poi in Italia. Lavora come pittore e ritrattista. In Italia si stabilisce prima in Polesine dopo a Rovigo dove conosce e sposa la moglie. Infine si trasferisce a Siena dove dice di avere in programma importanti lavori che però non partono nei tempi previsti e questo motiva parte della sua inquietudine.

In Ospedale non accetta mai del tutto il ricovero, nei primi giorni si agita molto, protesta, vuole parlare sempre con i medici e con la moglie, scrive lettere di continuo. Ritiene che il ricovero sia un abuso e pretende spiegazioni. Il diario clinico attesta dopo circa un mese il miglioramento delle condizioni, soprattutto dell’aspetto relativo all’eccitamento. Verso la fine marzo si registra anche un miglioramento dell’insonnia, tanto che vengono sospesi i farmaci fin lì prescritti, consistenti in un po’ di cloralio, di morfina e qualche bagno tiepido. Sparito o quasi l’accesso maniacale rimane il fondo paranoico che manifesta con una incontentabilità su tutto, non escluso il suo stesso operato, con l’irritazione per piccolezze e lo scarso adattamento alle mutate condizioni di vita. Il 14 aprile finalmente il Roy viene dimesso, con la diagnosi di “psicosi ciclotimica” affidandolo alla responsabilità della moglie che firma secondo l’art. 6 della legge sui manicomi approvata qualche anno prima. Sembra la risoluzione di un breve episodio di difficoltà con un ricovero, per quei tempi, brevissimo, appena 56 giorni.

Ma il bello comincia adesso. Il Roy evidentemente molto scosso e colpito dal fatto di essere stato in manicomio fa una prima mossa, appena tre giorni dopo la dimissione. Trova un medico che redige un certificato attestante la sua completa sanità mentale, il che gli permette di ottenere dall’ospedale la dimissione per guarigione e non più sottoposta alla responsabilità della moglie. Poi inizia una dura e lunga battaglia legale per dimostrare l’illegittimità del suo ricovero e con il proposito evidente di cancellare questa sorta di macchia dal suo curriculum. È una battaglia persa in partenza, vista la legittimità formale del suo ricovero, ma è anche un modo che il Roy utilizzerà sostanzialmente per accusare il sistema psichiatrico senese e più in generale tutta la Psichiatria come scienza ingiusta.

 

Per sostenere la sua posizione oltre che affidarsi ad importanti avvocati (non di Siena) scrive una sorta di testimonianza sui suoi giorni in manicomio. È un piccolo libretto, edito in poche copie, di una cinquantina di pagine che intitola “La beffa senza cena”, citazione di un lavoro teatrale molto in voga in quegli anni “La cena delle beffe” di Sem Benelli. Inoltre la pubblicazione porta un sottotitolo (per la riforma della legge sui manicomi) che lo lega all’attualità della nuova legge psichiatrica. Il tono è corrosivo, caustico, quasi sempre irridente fino all’insulto, ma mantiene un notevole interesse perché ci dà la testimonianza dal di dentro sulla vita manicomiale di quel periodo, scritta dalla penna di persona istruita e capace di esprimere il proprio punto di vista con buone argomentazioni.

Così esordisce: “Le parole non sono come il denaro che da qualsiasi parte venga ha il medesimo valore, ma come le cambiali che mutano valore secondo la firma che portano”. Questo è il motivo centrale del suo contenzioso, la sua parola come ex degente di un manicomio non conterà più come prima e allora lui vuole dimostrare che è stato uno sbaglio. Nelle pagine del suo velenoso pamphlet fa una cronaca dettagliata del ricovero, descrive alcuni compagni di sventura, parla dei medici e della loro tecnica e di molte altre cose. Naturalmente sarebbe troppo lungo esporlo nel dettaglio, mi limiterò a segnalare le cose che mi sembrano più interessanti.

“Delle cause che possono aver occasionato l’errore psichiatrico che mi condusse in manicomio non posso parlare per la semplice ragione che le ignoro…!”  Questo l’incipit sul motivo del ricovero, poi ipotizza che la ragione sia stata il possesso di una rivoltella senza porto d’armi, che in passato aveva avuto, ma aveva lasciato scadere. Descrive inoltre un insieme di rapporti non buoni con l’ambiente cittadino: ha l’impressione – così scrive – “che Siena sia straordinariamente inospitale, tranne per ciò che riguarda il clero tanto cortese ed obbligante”.

Lui che si ritiene un intellettuale ed artista, conoscitore del mondo, ha un rapporto molto competitivo con i medici che si permettono di consigliargli condotte di comportamento, che in qualche modo, a suo avviso, censurano il suo modo di vivere. Questo incanalerà il rapporto con loro e con D’Ormea in particolare verso un lungo contenzioso. Invece, appena arrivato in manicomio stringe un’alleanza con gli infermieri che stanno sempre con lui, e da cui accetta consigli di condotta per uscire prima possibile. La terza sera di ricovero incontra D’Ormea che così descrive: “un omettino dalla cui faccia, che sarebbe stata a posto più sulle spalle di un coltivatore di barbabietole che su quelle di uno scienziato, si leggeva la soddisfazione presuntuosa per la posizione raggiunta ancor giovane” (nel 1910 D’Ormea aveva 37 anni. N.d.R.)  In questo primo incontro il direttore gli dice: “stia sereno, lei tornerà un buon cittadino!”. Facendolo infuriare perché non accettava di esser diventato un cittadino cattivo. I medici gli dicono “Lei ha fatto qualcosa!” ma senza mai metterlo di fronte a fatti concreti. Trasferito nel reparto a pagamento la situazione non cambia di molto. Anche nei successivi colloqui non ricava soddisfazione tanto che scrive: “Avevo la sensazione opprimente come un incubo della mia impotenza morale, nel vedere la nessuna considerazione in cui erano tenute le mie parole, per l’impossibilità di far udire la mia voce al di fuori della mia prigione senza il bene placito dei medici che avevano il potere di cestinare le mie lettere anche a mia insaputa e comprendevo che la mia liberazione dipendeva solo dal loro capriccio”.

Al nono giorno di degenza decide di cambiare strategia e – dice – comincia il periodo della finzione. Rimpiange di non aver seguito subito il consiglio dei “suoi” infermieri che così lo consigliano: “parli pochissimo per quanto ragioni bene, e finga, finga, finga!”. E lui si adegua: “…facendo uno sforzo erculeo durante le solite visite cercavo di contrarre i muscoli del volto ad una smorfia che doveva essere un sorriso. Fingere la calma, la flemma e nel mio caso più esattamente il cretinismo”. Qualche risultato lo ottiene perché si comincia a parlare di una degenza più breve, forse un paio di mesi saranno sufficienti.

Comincia anche a disegnare su impulso del Direttore che però solo pochi giorni prima aveva emesso un avviso che: “nessun impiegato di quel piissimo istituto potesse sfruttare il lavoro dei ricoverati senza il suo permesso, ma con esso poteva estorcere il loro lavoro a piacimento. Ve n’erano altri 3 o 4 che lavoravano sino a dieci o dodici ore al giorno a vantaggio dell’istituto o dei medici producendo un lavoro che poteva rappresentare più migliaia di lire annue… per compensi irrisori: un bicchier di vino, il permesso di fare qualche passeggiata fuori del manicomio e simili bazzecole”.

E qual è la cura a cui viene sottoposto? la cura dell’ambiente. Sentite come la descrive: “…la mia cura era altrettanto dolorosa quanto semplicistica e consisteva nella cura dell’ambiente, cioè essere costretto a vivere coi pazzi, che avrei potuto avere identica, eccettuato il genere di compagnia, in un carcere qualunque. …La cura modernissima è semplicemente d’ambiente, invece di mandare un malato di nervi in montagna o al mare, avete capito?”

Nella pagina finale del suo libello formula le accuse:

Intanto accuso:

  1. II) la questura di Siena di essersi prestata al gioco senza assumere informazioni più serie, né avermi interrogato e di aver diviso col suo colpevole operato la colpevole leggerezza di chi volle ingiustamente sequestrarmi in manicomio.

  1. IV) Antonio D’Ormea, direttore, i dottori Majolfi primario, Stiatti e Grassi, secondari, d’essersi resi colpevoli della medesima trascuranza che si poteva e doveva evitare, anche coll’attuale legge sui manicomi, purché si avesse avuto la necessaria coscienza. Accuso perciò questi sanitari di tale deficienza intellettuale e morale, da essere indegni di coprire i posti di alta responsabilità in cui si trovano.
  2. V) Accuso tutte queste persone di aver commesso un sequestro di persona, aggravato dall’ingiusta squalifica che me ne rimase.

GIOVANNI ROY

Luglio 1912

 

Ho omesso per brevità alcuni capi d’accusa, il I) ed il III), la loro comprensione avrebbe reso necessario ulteriori lunghe spiegazioni.

Passano gli anni, del processo sappiamo che naturalmente si conclude nella fase istruttoria perché il fatto non costituisce reato. Il materiale che si trova in cartella finisce intorno al 1920.

È solo dopo molti anni che l’altro protagonista della diatriba scrive la sua versione. Antonio D’Ormea, infatti, pubblica nel 1949 un breve lavoro di 15 pagine sulla rivista “Rassegna di Studi Psichiatrici”, che lui stesso dirige, intitolato “Tre Pittori” in cui racconta la storia di tre artisti che hanno soggiornato in manicomio. Uno di questi è il Roy e così veniamo a sapere meglio alcuni particolari del motivo del suo ricovero. “Fra le varie gesta di allora – scrive D’Ormea – ci fu riferito dalla moglie terrorizzata che egli poneva la figlia giovanissima contro un armadio o una porta e a colpi di rivoltella ne disegnava l’esile corpo per dimostrare e esercitare la sua maestria di provetto tiratore. Dopo la dimissione dall’ospedale – continua D’Ormea – la sua unica ragione di vita non è più la sua arte… ma cercare di dimostrare a tutti che egli non fu mai malato di mente. Per questo vaga per l’Italia: Bologna, Venezia, Ferrara dove la sua vicenda si conclude. Nel 1920, infatti, si uccide con un colpo di rivoltella proprio mentre gli infermieri si avviavano verso la sua abitazione per riportarlo nell’ospedale Psichiatrico di quella città.

“Misera fine di un artista valente se non grande di cui noi non conosciamo che le manifestazioni date durante la sua degenza ospedaliera e di cui il ritratto che riproduciamo dimostra l’abilità tecnica ed il senso artistico”. Così conclude D’Ormea dandoci qualche elemento di valutazione che riequilibra la nostra visione dell’uomo Roy.

Ma, non per questo, le parole dello stesso suonano vuote di senso quando, criticando fortemente la Psichiatria, dice: “È necessario impedire che degli “scienziati” brancolanti nelle tenebre al pari dei ciechi, […] continuino a disporre della libertà degli uomini, nel modo stesso che lo potrebbero fare se si fondassero su d’una scienza esatta ed irrefutabile.”

Andrea Friscelli