Gli affreschi perduti sulla facciata del Santa Maria della Scala

Tra il 1326 e il 1328 l’ospedale di Santa Maria della Scala si dotò di un nuovo e più ampio “pellegrinaio”. Per accedervi venne creato un ingresso perfettamente perpendicolare rispetto allo spazio di assistenza appena realizzato.

 

Stiamo parlando del portale a sesto acuto che ancora oggi consente di entrare al Santa Maria, proprio di fronte alla Cattedrale.
Dove all’epoca, però, non c’era una piazza, tutt’altro. Perché almeno parte di quell’area compresa tra l’ospedale e la chiesa vescovile era destinata a cimitero.
La svolta si ebbe nel 1306, quando i Nove stabilirono di spianare lo spiazzo e coprirlo con lastre da porre probabilmente sopra le sepolture. Gli Statuti dell’anno prima, infatti, avevano prescritto che la consegna delle elemosine ai questuanti avvenisse all’interno dell’oratorio ospedaliero, non fuori, e così vi fu la necessità di indirizzare il deflusso di queste persone in uno spazio urbano adeguato, che magari non aveva ancora la connotazione di una vera e propria piazza, ma non era neppure più un cimitero. Di fatto, era quasi una corte interna utilizzata solo da coloro che si recavano al Duomo o all’ospedale.
Un luogo, tuttavia, che negli anni seguenti, con la creazione dell’accesso al nuovo pellegrinaio e il quasi coevo ingrandimento dell’oratorio, si decise di valorizzare maggiormente, ampliando l’area pubblica della piazza e realizzando ex novo, o forse solo rafforzando, la funzione di passaggio tra Vallepiatta e il Duomo. Il nuovo ingresso all’ospedale, così sovradimensionato in altezza e ampiezza rispetto all’oratorio dell’epoca, può essere correlato proprio allo spazio urbano dilatato che si stava formando al suo esterno.
Pertanto quella che sino ad allora era stata semplicemente la parete laterale della chiesa si trasformò in un’autentica facciata, priva però di qualsiasi connotazione esteriore. Ragion per cui si maturò la scelta di decorarla magnificamente, in modo che potesse rivaleggiare con la statura civica e artistica della fronteggiante facciata del Duomo.
E, in effetti, ad affrescare il prospetto furono chiamati i migliori pittori senesi dell’epoca, ossia i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti, ai quali probabilmente si affiancò anche Simone Martini, ormai in procinto di lasciare Siena per Avignone. Questi realizzarono quattro “Storie della Vergine”, oggi completamente perdute, databili intorno al 1335, anno riportato in un’iscrizione coeva, che nel 1649 era ancora leggibile e fu così trascritta da Isidoro Ugurgieri Azzolini: “Hoc opus fecit Petrus Laurentij et Ambrosius eius frater MCCCXXXV”.

ricostruzione grafica facciata Santa Maria alla fine del Trecento
Il ciclo a fresco era collocato sopra gli ingressi dell’ospedale e della chiesa, fra la parete in calcare di quest’ultima e quella che oggi si può interpretare come la demolizione di una cornice in muratura, allungandosi, pertanto, una storia dopo l’altra, dal Palazzo del Rettore fin quasi alle bifore della Casa dei gettatelli. Una quinta muraria che a sentire Girolamo Macchi sarebbe stata predisposta ad hoc diversi anni prima, tra il 1316 e il 1320, sotto il rettorato di Tese Tolomei, con tanto di tettoia che avrebbe dovuto proteggere l’opera dall’azione degli agenti atmosferici.
Nonostante la fama degli artisti chiamati a dipingerli e l’enorme reputazione che fece assurgere questi affreschi a prototipo per la pittura senese successiva almeno fino a tutto il Quattrocento, nessun documento dell’epoca fornisce delucidazioni sulla loro realizzazione.

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La prima memoria scritta di questo ciclo, infatti, si rintraccia più di un secolo dopo nei “Commentarii” di Lorenzo Ghiberti (1452-1455). Questi lo attribuì solamente ad Ambrogio (stimatissimo dall’artista fiorentino, che lo loda con queste parole: “Fece nella facciata dello spedale due storie e furono le prime: l’una è quando Nostra Donna nacque, la seconda quando ella andò al Tempio, molto egregiamente fatte”) e Simone (“E nella facciata dello Spedale due storie fatte come Nostra [Donna] è isposata e l’altra come è visitata da molte vergini, molto adorne di casamento e di figure”), omettendo l’attività di Pietro Lorenzetti.
Il secolo dopo Giorgio Vasari cadde in un errore ancor più marchiano, forse perché scrisse sulle “Storie” dell’ospedale notizie di seconda mano. Eliminato completamente Simone Martini dalla loro esecuzione, le assegnò solo ai Lorenzetti, senza tuttavia comprendere il grado di parentela tra i due, elogiando sperticatamente “Pietro Laurati”, che nel dipingere la Presentazione al tempio e lo sposalizio di Maria avrebbe imitato “la maniera di Giotto”, e descrivendo con meno enfasi le scene elaborate da Ambrogio (la Natività e l’incontro con le vergini al tempio).
Nel corso del Seicento diversi eruditi senesi menzionarono gli affreschi, palesando le solite incertezze sulla loro attribuzione, da Giulio Mancini a Fabio Chigi, dal citato Ugurgieri Azzolini al Macchi, finché ai primi del Settecento Girolamo Gigli fu testimone oculare che il prezioso ciclo pittorico stava ormai scomparendo, irrimediabilmente danneggiato dagli agenti atmosferici nonostante la presenza della tettoia (“Al di fuori della Chiesa stessa si vede quasi spento affatto dal tempo lo Sposalizio della B. Vergine, e la sua Presentazione al tempio”).

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Situazione compromessa, che tra il settembre del 1720 e il gennaio del 1721 convinse il Rettore Antonio Ugolini ad operare una generale ripulitura del fronte dell’ospedale, scialbando a calcina la casa delle Balie e del Rettore, abbattendo la tettoia e picchettando gli affreschi sulla facciata della chiesa. Questa fu uniformemente dipinta a strisce bianche e azzurre, “decorazione” eliminata con i restauri del 1905-1907, che riportarono a nudo il muro.
In questo modo, il poco che restava dei preziosi affreschi trecenteschi fu cancellato per sempre, suscitando non poche polemiche nei contemporanei. Se Guglielmo Della Valle si limitò a commentare che l’intervento aveva dato “a quella fabbrica un liscio insignificante”, assai più duro fu il resoconto di Giovanni Antonio Pecci nel “Giornale Sanese”, che all’ottobre del 1720 scrisse: “Facciata dello Spedale scialbata e pitture di Ambrogio di Lorenzo barbaramente sfregiate”. Sempre quell’anno, in un angolo della cortina muraria che aveva ospitato questi capolavori, Nicolò Nasoni dipinse a fresco l’orologio ancora esistente sulla facciata del Santa Maria.
Roberto Cresti
Maura Martellucci